Nasce la rete European Jews for Palestine: “Non in nostro nome”

Nasce la rete European Jews for Palestine: “Non in nostro nome”

«Celebriamo il capodanno ebraico con un messaggio di solidarietà al popolo palestinese e un appello alla fine del genocidio in corso a Gaza e ai crimini di guerra di Israele» ha dichiarato Gabi Kaplan, co-portavoce danese dell’organizzazione European Jews for Palestine (ebrei europei per la Palestina, ndr) presentata al Parlamento europeo il 3 ottobre in occasione dell’apertura del Rosh Hashanah (il capodanno ebraico, appunto) su iniziativa di tre eurodeputati, il belga Marc Botegna (The Left), il francese Mounir Satouri (Greens/EFA) e la spagnola Hana Jalloul (S&D).

L’organizzazione, nata a Parigi nel marzo del 2024 in seno alla Conferenza internazionale ebraica, è composta da una rete di venti gruppi provenienti da quattordici stati. «Sentiamo il bisogno di organizzarci collettivamente come ebrei per esprimere la nostra opposizione al genocidio in corso, all’epurazione etnica, all’occupazione e all’apartheid praticata da Israele in Palestina da 76 anni» dichiarano. «Rappresentiamo una voce politica e un movimento fondato sulla giustizia e l’uguaglianza. Intendiamo riappropriarci della nostra identità ebraica prendendo le distanze dallo stato d’Israele e da tutte le forme di politiche suprematiste e coloniali».

Al Parlamento europeo Kaplan ha spiegato: «Molti di noi hanno un passato complicato. Non siamo un monolite. Siamo ebrei sefarditi, aschenaziti, mizrahi, praticanti e non praticanti. Parliamo lingue diverse. Alcuni di noi sono nati e cresciuti in Europa, altri sono immigrati. Alcuni sono discendenti di perseguitati». Come Fenya Fischler, dell’associazione belga Another Jewish Voice: «Discendo da ebrei dell’Europa dell’est fuggiti da povertà, antisemitismo e genocidio» ha spiegato. «Sono qui in quanto nipote di sopravvissuti che hanno trasmesso quel trauma transgenerazionale che ancora oggi viviamo».

La danese Kaplan ha denunciato in particolare come gli ebrei siano potuti tornare a vivere nei paesi europei di origine che, in passato, erano stati costretti ad abbandonare, grazie alle cosiddette “leggi del ritorno” del dopoguerra che glielo hanno permesso. «Un diritto che, ai palestinesi, è negato», sostiene. Per questo, nel suo manifesto fondativo l’organizzazione dichiara di voler scollegare l’ebraismo “dalla dottrina coloniale del sionismo”.

In un articolo apparso su il manifesto, Micol Meghnagi spiega infatti che nel 2016 l’assemblea dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), organizzazione nata alla fine degli anni ‘90 per proteggere la memoria della Shoah, «ha approvato e diramato una definizione di antisemitismo, di cui sette degli undici punti riguardano atteggiamenti verso Israele». È così che in poco tempo «la definizione è diventata giuridicamente vincolante in numerosi paesi europei (29)», scrive Meghnagi. L’effetto paradossale è che le stesse organizzazioni ebraiche che protestano contro Israele vengono perseguitate e tacciate di antisemitismo.

Come succede, tra gli altri, alle associazioni di ebrei. In Germania, ad esempio, in numerose città le manifestazioni a favore della Palestina sono severamente punite: ad agosto, una donna è stata condannata a 655 euro di multa per aver urlato uno slogan contro Israele. Neanche in Francia, dove ad aprile tra mille polemiche la facoltà parigina di Sciences Po è stata occupata in solidarietà con la Palestina, le cose vanno meglio: il giornalista Olly Haynes denuncia la censura e la criminalizzazione delle manifestazioni in solidarietà a Gaza.

Perciò nel suo primo evento pubblico, la rete di organizzazioni ebraiche non si è risparmiata nel chiedere «uguali diritti per tutti nella Palestina storica dal fiume al mare» e lo stop all’invio di armi a Israele da parte dell’Occidente.

«In occasione del capodanno ebraico è tradizione mangiare un melograno, frutto originario della Palestina» ha raccontato Gabi Kaplan al termine del suo intervento. «Il melograno è noto come il frutto delle mille storie e si dice che ogni seme che contiene rappresenta una buona azione. Vorrei chiedervi: in tempo di genocidio, cosa significa fare del bene? Per noi significa continuare il lavoro di solidarietà, di resistenza, di rendere conto a noi stessi e alle nostre comunità. Con questo impegno, preghiamo affinché l’anno ebraico 5785 veda la realizzazione della promessa “Mai più”».

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