Non è un gioco. L’Italia e il lavoro minorile

Non è un gioco. L’Italia e il lavoro minorile

Il 12 giugno si celebra la giornata mondiale contro il lavoro minorile, un fenomeno che nel mondo riguarda 1 bambino su 10. In Italia, nel 2023, è un problema di 1 minore su 15: è questa la stima fatta da Save The Children, organizzazione non governativa per la difesa dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nell’indagine «Non è un gioco», presentata lo scorso aprile. Attualmente si tratta dell’unico studio approfondito in Italia sul fenomeno del lavoro minorile, aggiornato a dieci anni di distanza dal precedente.

L’indagine è stata condotta su un campione di studenti maschi e femmine di età compresa tra i 14 e i 15 anni, iscritti al biennio delle superiori tra dicembre 2022 e febbraio 2023, di quindici province italiane e settantadue scuole campione (tra queste, Save The Children segnala che la maggior parte dei licei si è rifiutata di partecipare).

Dallo studio emerge che quella del lavoro dei minori di sedici anni (età minima, secondo la legge vigente, per lavorare) è una piaga che riguarda anche l’Italia, che sebbene abbia ratificato le più importanti convenzioni internazionali sul tema (n. 138 del 1973 e n. 182 del 1999 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro) e si impegni formalmente ad adottare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 per mettere fine al lavoro minorile entro il 2025, non ha ancora nominato una Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza né, finora, si è impegnata a istituire una commissione per rilevare sistematicamente il fenomeno, individuare fattori di rischio sul territorio e studiare percorsi e soluzioni.

Eppure in Italia il fenomeno è preoccupante e in crescita. Secondo i dati raccolti, infatti, in Italia lavorano, o hanno lavorato, 336 mila minori tra i 7 e i 15 anni, cioè un minore su quindici, mentre nel 2013 erano 260 mila (rappresentando così il 5% del campione preso in oggetto all’epoca, già ai tempi al di sopra della media europea, la cui stima si attestava sull’1%). Il dato è comunque parziale, perché dall’indagine stessa emerge che una quota importante di minori lavoratori abbandona la scuola, rendendosi così irreperibile.

La maggior parte dei ragazzini intervistati che ha lavorato o lavora è di sesso maschile e lo ha fatto a più di 13 anni di età, ma ben il 6,6% lo ha fatto prima degli 11 anni.

Di questi, il 27,8% ha fatto lavori dannosi, svolti in orari notturni o durante il periodo scolastico. I settori prevalentemente coinvolti nel lavoro minorile sono la ristorazione (25,9%), il commercio (16,2%), le attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), l’attività di cura di fratelli e parenti, soprattutto per le ragazzine (7,3%) e varie forme di lavoro online (5,7%) che, come evidenzia la ONG, rappresentano «zone grigie in cui il lavoro minorile, l’abuso e la violazione della privacy di bambine, bambini e adolescenti si presentano in modi non canonici». Il fenomeno è inoltre direttamente collegato al grado di studio dei genitori (in particolare a quello della madre), i quali nel 7,1% dei casi non hanno nessun titolo di studio o la licenza elementare, mentre quasi nel 30% dei casi possiedono la licenza secondaria di primo grado. Dati che, come sottolinea l’organizzazione, non indicano certo un nesso causale tra condizione familiare e lavoro minorile, ma mettono in luce la relazione con il contesto familiare di livello socioeconomico e culturale basso.

Ma perché i ragazzi lavorano? Ben il 56,3% del campione ha dichiarato di farlo per avere dei soldi per sé, il 38,5% per il piacere di lavorare, il 32% per aiutare i genitori e il 5,9% per contribuire al sostegno economico della famiglia, spesso numerose con più di due figli (13,5% dei casi) e monoparentali (20%), il più delle volte povere.

Guardando alle motivazioni fornite dai ragazzi, il fenomeno chiama insomma direttamente in causa la scuola. Perché la maggior parte dei ragazzi che lavora lo fa arrivando alla conclusione che il mondo del lavoro possa fornire delle competenze che un percorso educativo non può dare o perché, come vedremo, il sistema scolastico non si rivela all’altezza dei bisogni dei ragazzi. E allora è soprattutto nel contesto educativo che occorre sviluppare una riflessione.

Come fa Michelangelo Pecoraro, Presidente dell’Associazione Laudes e supervisore pedagogico didattico del Progetto Base Camp. Pecoraro racconta la storia di Nicola (nome di fantasia, ndr), 16 anni. Una storia paradigmatica. «Nicola cambia per due volte scuola superiore, passando dall’istituto tecnico al professionale. Alla fine si iscrive presso un Ciofs (centri di formazione professionale dove frequentare un triennio obbligatorio più un eventuale quarto anno), ma l’ambiente non gli piace. Se la scuola è questo, dice Nicola, vado a lavorare. La madre non è d’accordo, il padre invece sì: finalmente il figlio è adulto. Nicola lavora otto ore al giorno, per tre giorni alla settimana, come cameriere. È sfruttato, sente che il lavoro non gli dà niente, quindi (poco convinto) torna a scuola, mantenendo però l’impiego serale». Quando si parla di lavoro minorile, si parla infatti, da una parte, di alto rischio di sfruttamento, e dall’altra del fallimento di un sistema dove l’iscrizione a scuola è spesso una corsa ad ostacoli (molte le scuole pubbliche che, per difendere il loro buon nome, non accettano ragazzi “difficili”), e quando si è iscritti non esiste un metodo educativo che vada al di là della lezione frontale. Modalità che alimenta l’abbandono scolastico.

Un secondo profilo di studenti lavoratori minori individuati dall’indagine della ONG sono gli immigrati obbligati a farlo per sostenere la famiglia. Come M., 18 anni, marocchino che vive a Roma, orfano di padre, che racconta di esser «costretto a lavorare per mandare i soldi e pagare le spese mensili della famiglia».

Molte le ragazze che, invece, non lavorano tanto per necessità economica, quanto per un senso del dovere e del sacrificio: è il caso di F., 15 anni, anche lei di Roma, impiegata nell’attività commerciale di famiglia che racconta a Save The Children: «Aiuto quando manca il personale. Siccome è mia nonna che mi mantiene, lavorando per lei è come se le dessi indietro quello che mi dà».

Anna (nome di fantasia, ndr), giovane professoressa precaria in una scuola superiore di Milano, ci racconta invece il caso di M., ragazzo di origine cinese di 15 anni impiegato nell’azienda di famiglia: «Non lo vedo da mesi, ma quando frequentava la scuola veniva solo il lunedì, giorno di chiusura del ristorante dei genitori dove lavorava come cameriere».

Infine, l’ONG evidenzia quei casi in cui il lavoro del minore rappresenta la tappa finale di un percorso educativo di insuccesso causato dal senso di estraneità e dalla sfiducia generale. Fattori di rischio che attualmente non vengono contrastati efficacemente, come spiega ancora Pecoraro: «Carlos (nome di fantasia, ndr) è un ragazzo sudamericano che è stato mandato dalla scuola al Base Camp di Roma perché parla solo spagnolo. Per questo motivo hanno pensato bene di iscriverlo al primo anno di liceo linguistico, dove però si sente fuori contesto perché è in una classe con venti parlanti italofoni che hanno tre anni meno di lui. In più, lui non parla italiano, quindi non socializza. Ironia della sorte, al linguistico studia inglese e francese, spagnolo non è previsto». Con premesse di questo tipo, è naturale allora che la frustrazione del ragazzo lo metta nelle condizioni di preferire il lavoro a un percorso educativo.

Alla base del lavoro minorile in Italia, nella maggior parte dei casi, c’è la ricerca, da parte dei ragazzi, di guadagni facili. Molti dei ragazzi intervistati da Save The Children, cioè, desiderano una disponibilità economica immediata e non ritengono che la scuola possa fornir loro le conoscenze necessarie per raggiungerla in tempi brevi. È proprio quello che racconta Andrea Torra, Presidente della cooperativa Un Sogno Per tutti di Torino, che si occupa tra le altre cose di prevenzione alla dispersione educativa: «Il lavoro è segno del fallimento di un percorso educativo. E le mansioni che i ragazzi svolgono non sono formative, non imparano cioè un mestiere. Tra l’altro, nella maggior parte dei casi non lavorano per aiutare la famiglia. “Guadagno la cento euro”, come dicono loro, ma spendono quei soldi per sé». Diverso il caso, sottolinea Torra, dei minori migranti non accompagnati: «In questo caso c’è la voglia di riscatto. Per loro il percorso scolastico è fondamentale».

Secondo l’indagine, il lavoro minorile in Italia ha assunto negli ultimi dieci anni contorni particolarmente gravi. Save The Children punta il dito contro l’indifferenza delle istituzioni, sottolineando la necessità di occuparsi sistematicamente di un fenomeno in costante e allarmante crescita, individuando i fattori di rischio e facendo opera di prevenzione.

Ma parlare di lavoro minorile, come abbiamo visto, significa parlare anche del fallimento di un sistema educativo che non è in grado di occuparsi di chi ne ha più bisogno. In questo senso allora, il Progetto Base Camp attualmente presente a Roma, Napoli, Catanzaro, Palermo, è un’iniziativa da cui prendere ispirazione: «Bisogna lavorare con le singole persone, capire i problemi di ciascuna situazione e mobilitare delle piccole reti attorno alle persone più fragili. E bisogna “sporcarsi le mani”» spiega Pecoraro «Spesso le difficoltà si possono risolvere, ma c’è bisogno di un aiuto attorno alla persona (scuola, famiglia ed eventuali istituzioni sanitarie, come Asl e centri di sostegno psicologico). E c’è bisogno del lavoro per mettere in piedi questa “piccola rete” e per mantenerla nel tempo: la costanza nel tempo ripaga, soprattutto laddove si cerca di contrastare difficoltà strutturali». Proposte che sembrano inattuabili, ma la cui applicazione gioverebbe alla collettività intera «perché impostare la vita in modo soddisfacente in giovane età poi causa anche meno problemi alle persone in età più avanzata, e quindi meno problemi allo Stato, cioè a tutti noi». E sono costi che stiamo già pagando, se si pensa che il 40% dei giovani che hanno a che fare con la giustizia ha iniziato a lavorare proprio a meno di 16 anni, e che i minori lavoratori sono in genere giovani incapaci di immaginarsi un futuro, e quindi probabili futuri NEET, con tutti i problemi che questo porta con sé.

Propone Pecoraro: «Più tempo pieno per tutti, più scuola (di qualità) il pomeriggio, più studio ed educazione per tutti: non è possibile che ci siano scuole che rifiutano gli studenti, non è possibile che a volte gli studenti debbano girare per quattro o cinque scuole prima di trovarne una che li accolga, non è possibile che la scuola pensi ai ragazzi solo per le ore di lezione frontale, e poi tutto quello che gli succede fuori non venga ritenuto di sua pertinenza». Soprattutto se poi li boccia, mettendoli di fronte alla possibilità concreta di andare a lavorare. Decisione che, in giovane età, secondo quanto rilevato, non rappresenta mai una esperienza formativa né tantomeno un investimento sul futuro minimamente paragonabile a un percorso educativo.

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