Che il governo Meloni non se la stia passando bene, è un dato di fatto. Ma a dirlo sono i soliti detrattori della stampa di sinistra e di altri “attori sociali” che proprio non digeriscono il governo più a destra della storia della Repubblica. Sarà, ma intanto Giorgia Meloni deve far fronte ad una maggioranza tenuta insieme dai soli interessi individuali e ad una manovra che non consente troppi margini. Gli annunci di investimenti e le affermazioni legate alla fu berlusconiana «piena occupazione» hanno trovato di fronte a loro il muro del piano sottoscritto con l’Unione Europea. Tagli, privatizzazioni e sacrifici. La ricetta per trovare i soldi parrebbe essere sempre la stessa. Di questo, e di altro, ne abbiamo parlato con Marco Bersani, presidente di Attac Italia, la sezione italiana «della rete internazionale di opposizione e alternativa al neoliberismo costruita in questi anni dal movimento altermondialista».
Marco Bersani, già dirigente comunale dei servizi sociali, è supervisore pedagogico di cooperative sociali. Oltre ad essere stato uno dei principali animatori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e fra i promotori della campagna Stop Ttip Italia, è fra i soci fondatori di Cadtm Italia e fra i facilitatori del percorso di convergenza della Società della Cura. L’ultimo libro che ha scritto si intitola proprio La società della cura ed è stato pubblicato da Alegre.
Nel corso dell’assemblea di Confindustria, oltre a ribadire l’intesa con gli industriali, Meloni ha dichiarato più volte come mai nella storia d’Italia si sia verificata una condizione di occupazione lavorativa come nel suo governo. Come valuti questa dichiarazione e, più in generale, il discorso della Presidente del consiglio?
Beh, Meloni ha sostanzialmente espresso il manifesto delle sue intenzioni.
Quali sarebbero?
Grandi annunci e quasi zero sostanza. Va ricordato che l’Italia, avendo una procedura di infrazione con l’Ue per l’eccesso di deficit (cioè che ha un deficit superiore al 3% del Pil), ha sottoscritto un piano di rientro del debito di 7 anni che comporta un taglio della spesa pubblica di 84 miliardi in 7 anni. Vale a dire un taglio [costante] tra i 12 e i 13 miliardi all’anno.
Quando la Meloni dice “faremo, diremo, attueremo” c’è da fare la proverbiale tara. Lo vedremo – stavolta davvero – con il Piano strutturale di bilancio (Psb) quale sarà la realtà dei fatti. A proposito dell’occupazione, trovandosi a braccetto col presidente di Confindustria, ha detto che la situazione è positiva. Se, però, si vanno a vedere i dati reali ci si accorge che si tratta perlopiù di occupazione precaria. A tal proposito vale la pena di ricordare che il disastro industriale dell’automotive (spacciato come crisi dell’auto elettrica, ma che in realtà rappresenta una crisi di investimenti nel Paese), prevederà un autunno di chiusure di fabbriche (sia di produzione diretta che dell’indotto) e cassa integrazione diffusa. Insomma, ben lontani dall’idea di essere in una situazione positiva.
A proposito di auto elettriche, sia Meloni che Confindustria hanno criticato il cosiddetto green deal così come in questi giorni dal ministro Urso.
Va specificato che il cosiddetto green deal dell’Ue, dal mio punto di vista, è assolutamente timido, non adeguato e fondato sull’ideologia che la crisi climatica ed ecologica si possa risolvere dando la conduzione della società all’economia. Di nuovo.
Ovvero?
Mi spiego meglio. L’idea alla base del green deal è quella per cui le leggi di mercato ci porteranno fuori dalla crisi economica. A me sembra sempre più evidente che non è quella la strada da seguire. Ebbene, Meloni asseconda Orsini sul pur timido green deal affermando che se la decarbonizzazione dovesse mettere in crisi il sistema industriale italiano, andrebbe rallentata la decarbonizzazione.
Cosa andrebbe fatto, allora?
Un serio piano di grandi investimenti sulla mobilità (nazionale e territoriale) di questo Paese per ragionare sulla riconversione in senso ecologico e sociale del modo di muoversi.
Servirebbe una prospettiva a lungo termine che, al momento il Governo non ha.
Esatto, lo sguardo è sempre corto. O meglio: si ha lo sguardo lungo quando il Governo pensa al dissenso e alla contestazione di piazza.
Ti riferisci al cosiddetto Decreto Sicurezza (DL 1660)?
Precisamente. Presidente e ministri sanno bene che i prossimi mesi saranno ancora più duri rispetto alla situazione attuale: aumento di mobilitazioni, manifestazioni e dimostrazioni, dunque si vuole approvare il DL di cui parlavi in tempi brevissimi. Un decreto liberticida e, in alcuni aspetti, perfino contro la Costituzione (che entrerà nel mirino – se così si può dire – della Corte Costituzionale): nei fatti prevede la impossibilità di manifestare. Di più: se ci si azzarda a protestare su alcuni temi (per le opere cosiddette strategiche), c’è il rischio di un processo penale e di carcerazioni. Ci si è inventati anche un nuovo reato che è quello della resistenza passiva: roba che neanche il Codice fascista del Ministro Rocco! Il governo potrà anche continuare a fare annunci ma ribadisco: la sostanza è prossima allo zero.
Prima tu accennavi al piano di rientro del debito: rientra in questa prospettiva la notizia di questi giorni per cui il Governo sta cercando acquirenti per la vendita di un ulteriore 15% di Poste Italiane?
Il ragionamento che sta alla base di quanto dici è riassumibile in “sporchi, maledetti e subito”. Il governo deve far quadrare i conti e mette sul mercato pezzi strutturali di quel che rimane della proprietà pubblica. Anche sulle ferrovie si sta cominciando a ragionare sull’ingresso dei privati. E no, non sto parlando di quel che è già avvenuto con Italo. Parlo proprio del fatto che si inizi a sussurrare del fatto che RFI, dunque il sistema strutturale delle ferrovie, potrebbe essere messa sul mercato.
Dunque la risposta è sempre la stessa: privatizzazioni?
Siamo alle solite. La parola su di esse potrebbe già essere definitiva: ci sono quarant’anni di dimostrazione che le privatizzazioni non servono alla diminuzione del debito pubblico. Viene utilizzata la trappola artificiale del debito per porre sul mercato quel che prima era fuori mercato. Il vero dato di fatto è che la crisi strutturale del sistema in cui viviamo comporta che il capitalismo non può più permettersi che ci siano settori della società che non siano guidati dal mercato.
Ti riferisci all’acqua?
Parlo dei beni comuni (dunque acqua, elettrici, energia) e parlo dei grandi settori strutturali.
Le privatizzazioni che si stanno mettendo in atto non hanno più alcuna giustificazione da un punto di vista ideologico (cioè di una visione del mondo): sono semplicemente la rappresentazione di una volontà legata all’imminenza di far quadrare i conti, del qui ed ora. La prospettiva di lungo periodo è totalmente assente: vendiamo ulteriori pezzi di Stato, si dice, così da rientrare di qualche spesa. Io spero, davvero, che un giorno si possa fare un dibattito pubblico serio, fra tutti i soggetti della società, che affronti il problema delle privatizzazioni: sono un fallimento sotto tutti i punti di vista, tranne da quelli dei grandi interessi finanziari.
Parliamo dell’autonomia differenziata e dei lep: mi riferisco a quanto rivelato dal quotidiano il manifesto di una volontà di chiusura del dibattito da parte del ministro Calderoli.
Sì certo. Però, secondo me, va segnalato il fatto che proprio la scorsa settimana siano state consegnate un milione e duecentomila firme contro la legge sull’autonomia differenziata. La Lega già sostiene che sia stato un gioco troppo facile il fatto che si sia potuto firmare online: le sottoscrizioni raccolte ai banchetti sono state oltre 700.000 (settecentomila). Ben oltre le 500.000 richieste dalla legge e dunque quella proposta di referendum ce l’avrebbe fatta anche senza l’ausilio della firma digitale.
A tal proposito s’è già avviato un dibattito sulla possibilità che l’istituto del referendum perda di credibilità dato il ricorso alla firma digitale. Penso anche all’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera del 24 settembre.
La piattaforma elettronica però è stata messa a disposizione dal governo per i cittadini… Penso che l’esecutivo debba fare i conti con questo dato ma, anziché andare in quella direzione, fa le proverbiali fughe in avanti.
Ti riferisci al colloquio tra Calderoli e le regioni del nord per avviare il dibattito a riguardo?
La prima è questa, senza dubbio. In questo modo il ministro cercherebbe di far avanzare la devoluzione sulle competenze di settori dove non è necessario definire i livelli essenziali delle prestazioni. Contemporaneamente s’è convocato il comitato di esperti – che ha preso il nome di Clep – al fine di definire i livelli essenziali delle prestazioni. Lo stesso comitato sta conducendo un lavoro opaco e pare si stia orientando su un principio totalmente anticostituzionale per cui i lep dovranno tenere conto del costo della vita in ogni territorio.
Gabbie salariali?
Precisamente: da una parte si tornerà alle gabbie salariali. Dall’altra le diseguaglianze tra regioni (che già esistono) andranno ad aumentare. Un esempio? Se decido che il livello essenziale delle prestazioni degli assistenti sociali deve essere uno ogni diecimila abitanti, in Calabria (essendoci un costo della vita minore che in Lombardia) ne stabilisco uno ogni cinquantamila. Non ha alcun senso logico ma è la rappresentazione definitiva delle diseguaglianze tra nord e sud del Paese. Così come avverrà, anche all’interno della stessa regione, che ci sarà chi potrà permettersi determinati servizi e chi non potrà.