Sarebbe stato un articolo di Giovanni Pons il motivo per cui più di 100 mila copie di Repubblica dell’8 aprile sono finite al macero. Il pezzo censurato si soffermava sulle relazioni economiche tra Italia e Francia e, in particolare, sul rapporto tra il governo Meloni e l’azienda di autoveicoli Stellantis. Fatto non secondario, considerando che a capo del gruppo Gedi, che controlla Repubblica, si trova dal 2020 John Elkann, al vertice anche del consiglio di amministrazione di Stellantis.
La decisione del direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha portato i giornalisti del secondo quotidiano più importante d’Italia a votare una mozione di sfiducia nei suoi confronti e a far uscire l’edizione del 9 aprile (cartacea e online) senza firme per 24 ore. «Il direttore ha la potestà di decidere che cosa venga pubblicato o meno sul giornale che dirige, ma non di intervenire a conclusione di un lavoro di ricerca» si legge nel testo della mozione «In questo modo viene lesa l’autonomia di ogni singolo giornalista di Repubblica».
Il fatto avviene in concomitanza con lo sciopero dei giornalisti dell’Agi, la storica Agenzia Giornalistica Italia fondata nel 1950 da Enrico Mattei e, dal 1965, di proprietà di Eni (controllata per il 35% dallo Stato), apparentemente pronta a venderla, dopo quasi sessant’anni, al deputato della Lega Antonio Angelucci.
Secondo una ricostruzione pubblicata dal Corriere della Sera, Angelucci, abruzzese classe 1944, possiede la holding che controlla uno dei gruppi sanitari privati più importanti del Paese, il San Raffaele. Già proprietario di Libero, Il Tempo e Il Giornale, Angelucci sarebbe interessato ad acquistare l’agenzia di stampa. In merito, un portavoce di Eni ha smentito la vendita di Agi tramite bando di gara, dichiarando che «a oggi la società non ha ricevuto alcuna manifestazione di interesse alternativa a quella attualmente in valutazione (da parte di Antonio Angelucci)». Federazione nazionale stampa italiana, Agi e Stampa Romana hanno chiesto quindi a Eni di «fare chiarezza sui contenuti del possibile accordo di compravendita dell’agenzia che […] si configurerebbe come un passaggio non trasparente, con termini che nulla hanno a che vedere con le logiche di mercato, la valorizzazione dell’azienda e l’utilizzo di risorse pubbliche».
“Meloni vuole tutto il potere mediatico in Italia” è il titolo di un articolo uscito la settimana scorsa su El Paìs dove si spiega come la vendita di Agi avvenga in un contesto inedito: «Mai prima un governo (italiano, ndr) aveva avuto l’appoggio quasi unanime delle tre principali emittenti (Rai 1, Rai 2 e Rai 3)» scrive Daniel Verdù, che sottolinea come perfino durante i decenni dell’impero massmediatico di Silvio Berlusconi i canali pubblici venivano spartiti su base elettorale, secondo il principio della cosiddetta “lottizzazione”.
Titolo profetico, quello del Paìs, visto che nei giorni successivi, al termine dei telegiornale delle tre emittenti di Stato, i giornalisti hanno letto un comunicato contro la nuova par condicio approvata alla vigilia delle elezioni europee e che permette al governo di intervenire senza vincoli di tempo e contraddittorio: «La maggioranza di governo ha deciso di trasformare la Rai nel proprio megafono» si legge in un comunicato di Usigrai, sindacato dei giornalisti. «Questa non è la nostra idea di servizio pubblico, dove al centro c’è il lavoro delle giornaliste e dei giornalisti che fanno domande (anche scomode), verificano quanto viene detto, fanno notare incongruenze».
Mentre i professionisti dell’informazione protestano, Gianni Berrino, capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Giustizia, ha presentato un emendamento al ddl sulla diffamazione che prevede fino a 4 anni e mezzo di carcere e 120 mila euro di multa per i giornalisti per diffamazione a mezzo stampa, successivamente ritirato in seguito alle proteste dell’opposizione. «Ancora un attacco alla libertà di stampa» commenta Usigrai «Stavolta il partito della presidente Giorgia Meloni dopo la par condicio à la carte, fa un altro passo verso paesi come Russia, Cina, Bielorussia o Iran». Misura, quella della reclusione, già dichiarata illegittima nel 2021 dalla Corte Costituzionale perché incompatibile con la Cedu.
A rendere complesso il lavoro dei giornalisti `in Italia, come evidenziato da un’inchiesta di Irpimedia, ci sono, fra le tante ragioni, le intimidazioni, come la piaga delle cosiddette querele temerarie, che possono essere sporte senza che vi siano i presupposti, con l’unico scopo di scoraggiare il lavoro di inchiesta.
Anche per questo nel 2023 l’Italia compariva al 41° posto nella classifica della libertà di stampa, secondo il rapporto 2023 di Reporter senza frontiere. Il quadro che emergeva era allarmante: “minacciato dalla criminalità organizzata […] oltre che da vari gruppi estremisti violenti”, il diritto a un’informazione plurale sembra essere a rischio. Oggi ancora di più.
Serena Ganzarolli