Il cuore sempre pulsante dell’altoforno ha smesso di battere solo una volta nella storia dell’acciaieria Zaporizhstal: era il 1941, iniziava l’operazione Barbarossa, l’esercito nazista entrava nella omonima città industriale cercando di raggiungere poi il territorio sovietico per invaderlo.
Dopo i tragici eventi della Seconda guerra mondiale il grande gigante di ferro e polvere non ha mai smesso di produrre e rifornire di ferro ed acciaio l’Europa e la stessa Ucraina. Fino al 2022, quando il nuovo conflitto ha costretto la dirigenza dell’acciaieria ad una temporanea chiusura essendo il fronte di guerra troppo vicino e il suono dei bombardamenti incalzante.
Dopo 33 giorni di stop il cuore della fabbrica ha però ripreso a battere e da allora ha continuato a farlo, diventando anche un simbolo di resilienza e resistenza durante l’invasione russa.
Fondata nel 1933 la Zaporizhstal si estende per 550 ettari, è una delle 3 più grandi acciaierie Ucraine al cui interno lavoravano prima dell’inizio della guerra circa 11000 operai, numero diminuito a circa 8000 con l’inizio del conflitto..
Ancora alla fine del 2021 esportava il 60% della sua produzione che consiste in oltre 10 milioni di tonnellate annue tra ghisa, acciaio e laminati di ferro.
L’ufficio stampa dell’azienda mi spiega che dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina circa 3000 operai hanno lasciato il lavoro, chi per mettersi al sicuro dalle bombe, chi per arruolarsi.
La diminuzione di manodopera ha significato un aumento delle ore di lavoro per chi è rimasto, senza purtroppo un aumento di salario. Mediamente il turno di un operaio era di 8 ore, salite a 12 con l’inizio della guerra e in alcuni casi con extra turni da 24 ore filate, come mi racconta Olexander Pryschepa un capocantiere specializzato nella gestione energetica dell’azienda.
Attualmente Zaporistal si attiene al 70% della sua capacità produttiva.
All’ingresso dell’impianto è ancora presente un monumento di fattura sovietica raffigurante il legame tra il lavoratore dell’acciaio e il soldato, dove il primo arma il secondo, un’immagine che sintetizza ancora perfettamente la situazione attuale del paese.
Infatti al di là dello sforzo bellico che l’Ucraina sta affrontando, il settore metallurgico resta fondamentale per l’economia, messa a durissima prova da due anni di guerra.
Il grigio e il rosso mattone della polvere di ferro dominano il paesaggio circostante, tubi del diametro minimo di un metro entrano ed escono dal corpo di ferro della fabbrica, gli uomini al lavoro sembrano formiche se guardati nel freddo contesto di lamiere, fumo e polvere che li sovrasta…. L’enorme spazio occupato dall’altoforno ribalta l’impatto visivo precedente; qui tutto è caldo e vapore, il rosso accesso delle fiamme e del ferro liquefatto sono i padroni della percezione di chi vi permane.
Quattro operai costantemente vestiti in tute ignifughe si avvicendano per controllare, domare ed mantenere vivo questo flusso di fuoco che scorre nelle vene della fabbrica.
Per lunghi minuti gli operai fissano il denso fluido incandescente controllando che il processo di fusione proceda nel migliore dei modi, come se i loro stessi occhi fossero ignifughi e gli dessero la possibilità di rimanere li a farsi incantare da quel continuo fluire.
Uno di questi Efesto contemporanei si avvicina alla botola dell’altoforno immergendosi in un esplosione di lapilli incandescenti, il ferro ha raggiunto oltre 1500 gradi ed è pronto a scorrere nelle enormi siviere e verso il reparto dove verrà trasformato in grandi blocchi di acciaio alti circa 8 metri. Il settore dedicato alla laminatura del ferro sembra uscito da una delle tavole di H. R. Giger, enormi macchinari umidi e ingrassati che assomigliano a muscoli, trasformano il flusso di materia incandescente in una sfoglia metallica.
L’operaio che mi guida in questa parte dell’azienda mi racconta di come hanno vissuto i primi mesi del conflitto e di come la sirena del cambio turno spesso si alternasse a quella di allerta missilistica.
Continua dicendomi che in quel periodo al suono della sirena di allarme, gli operai si nascondevano nei rifugi sotterranei, ma che con il tempo smisero di farlo, avendo fatto l’abitudine anche alla paura di un bombardamento. “Non siamo qui per nasconderci, siamo qui per fare il nostro lavoro e mantenere viva la fabbrica, non possiamo vivere nella paura”
La casa di Igor Bazanov è strapiena di cose, non potrebbe essere diversamente dato che nel piccolo appartamento nel centro di Zaporizha, l’operaio vive con la moglie Sabina, il figlio Mark di 6 anni, le loro due bimbe di 4 mesi e sua madre.
Igor ha 39 anni e da due lavora nel reparto controllo qualità dei prodotti finiti della Zaporizhstal. Quando nel 2022 è arrivata la conferma che la Azovstal di Mariupol, l’altro complesso metallurgico appartenente alla stessa compagnia, era distrutto e sotto il controllo russo, come tutti gli altri lavoratori ha capito che il settore siderurgico era un obiettivo importante per il nemico.
L’azienda doveva essere difesa ed allo stesso tempo poteva divenire trincea stessa, soprattutto dal lato psicologico, sarebbe dovuta essere lo scudo attraverso la quale la città ed il paese avrebbe dovuto reagire; non poteva chiudere e soccombere. In quel periodo Igor ha particolarmente sentito l’attaccamento a quel luogo che normalmente reputava solo come il posto che gli dava da vivere, spesso anche odiato, data la sua durezza.
Da quel momento però l’acciaieria ha rappresentato qualcosa di più, simboleggiava la resistenza della comunità stessa che diveniva tutt’uno, si è sentito parte di una famiglia allargata, quella operaia che nel corpo di ferro della fabbrica si sarebbe barricata e avrebbe combattutto a modo suo, con il lavoro.
Dopo due anni di guerra ammette che quel sentimento è sicuramente scemato, facendo posto anche alla rabbia e alla stanchezza causata da un lavoro usurante il cui salario è stato dimezzato a causa della diminuzione della produzione.
A causa della guerra il costo della vita è salito, soprattutto i beni di primo consumo e con il suo già risicato stipedio Igor è al limite delle possibilità di sussitenza per se e la sua famiglia, riesce ad arrivare alla fine del mese solo grazie alla piccola pensione della madre.
L’esportazione dei prodotti metallurgici ucraini ha subito un grave stop con lo scoppio della guerra, causando un grave ammanco nelle casse delle aziende; la Zaporizhstal ha risposto mantenendo i posti di lavoro ma tagliando i salari di oltre il 30%; scelta inizialmente condivisa da tutti, ma che sul lungo periodo inizia ad essere criticata, soprattutto da quando le esportazioni sono riprese attraverso il trasporto su gomma e ferro, cosa che ha però alzato il costo di questi prodotti per i paesi Europei.
Molti degli operai che ho incontrato hanno convenuto di essere stati d’accordo con la decisione dell’azienda di non chiudere tagliando però gli stipendi, ma sono altrettanto d’accordo che la situazione economica delle famiglie è al limite della povertà, soprattutto per la manodopera meno specializzata.
La solidarietà dei lavoratori e dell’azienda è stata forte soprattutto quando le notizie da Mariupol si sono fatte più chiare e la drammaticità dei fatti ha imposto alla dirigenza di agire in risposta a quello che stava accadendo.
Molti operai precedentemente impiegati nella Azovstal scappati verso i territori ucraini sono quindi stati ri-assunti nell’impianto di Zaporizhzhia, un’azione socialmente importante ed economicamente utile a sopperire alla mancanza di personale.
Roman Spivok è uno di questi operai; 45 anni originario di Mariupol è scappato dalla città quando i russi sono arrivati e gli scontri sono diventati più intensi. Sapeva che poteva essere rilocalizzato presso l’industria gemella della Azovstal e quindi ha deciso di lasciare la sua città con la madre di 84 anni.
L’uomo lavora come operaio specializzato nella costruzione e manutenzione dei rivestimenti termici dell’acciaieria, attività che svolge dal 1998, aveva appena 19 anni, una vita in fabbrica. Passo a prenderlo alla fine del turno, nonostante sia un uomo imponente e forte si legge sul volto la stanchezza accumulata dopo le 12 ore nello stabilimento.
Seduti ad un tavolo mi racconta che da quando è arrivato a Zaporizhzhia vive con la madre nel dormitorio aziendale, non potendo pagare con il suo stipendio due appartamenti per entrambi, sta cercando di risparmiare il più possibile, ma dubita che riuscirà a farlo entro l’anno, anche a causa del perdurare della guerra. La madre vorrebbe ritornare a Mariupol dove la loro casa è ancora intatta, ma ovviamente per lui questa possibilità non è da prendere in considerazione data l’occupazione russa.
Non ha più nulla che lo riporti a casa, essendo separato dalla sua compagna, che nel 2014 è scappata in Russia con la figlia di 5 anni, non ha loro notizie da allora. Non sa se rivedrà mai sua figlia.
La guerra gli ha portato via tutto, la famiglia, le amicizie, la casa.
Gli è rimasto solo il lavoro, quel gigante di ferro e polvere che lo protegge e che deve proteggere.