(Articolo redatto in collaborazione con Flaminia Zacchilli. Fotografie originali di Giulia Bucelli, Roma)
Sabato 28 ottobre si è svolta la manifestazione per la pace, a netto sostegno della Palestina. Lo slogan ufficiale e la frase ripetuta più volte a gran voce, non a caso, è stata “Free Free Palestine!”.
Al corteo abbiamo partecipato anche noi, cercando di raccogliere le opinioni di alcuni partecipanti, per raccontarvi cos’è successo a Roma ieri pomeriggio.
Una mobilitazione nazionale: molte voci, molte età
Roma, Piazzale Ostiense, Porta San Paolo. Ore 15:40. La manifestazione parte con un cospicuo ritardo sulla tabella di marcia. La prima impressione è: molti colori, molte bandiere palestinesi, molti giovani. Pare che i manifestanti siano 20.000: ad occhio la percezione è maggiore.
Partecipano oltre 50 tra associazioni e partiti – in prima linea, ovviamente, Rifondazione Comunista e il Partito Comunista Italiano.
Si distinguono molti volti di persone di origini egiziane o marocchine, dichiaratamente musulmane e spesso nate in Italia. A guidare il corteo sono ovviamente loro: i palestinesi.
La manifestazione prende forma: ci troviamo immersi in una grande fiumana di persone.
Tra queste anche Aymen, un ragazzo marocchino dal marcato accento milanese che incrociamo all’inizio del corteo. Lui ci chiarisce subito il perché si trova alla manifestazione: “solidarietà per la Palestina, almeno per quanto mi riguarda”. Sulla possibilità che l’Italia possa fare qualcosa per il raggiungimento della pace ci dice: “Il primo passo sarebbe magari votare per il cessare il fuoco invece di astenersi. Per il resto, purtroppo, penso che non abbia tutta questa rilevanza (…) L’Italia può dire quello che vuole, ma gli Stati Uniti continueranno a vendere armi”.
Dello stesso avviso è Giulia, studentessa. Che però lascia spazio a un barlume di speranza: “C’è una parte di me che è estremamente negativa riguardo la situazione e temo che non riusciremo a fare nulla, ma dobbiamo tenere la testa alta per chi adesso non la può tenere, quindi voglio restare positiva”.
Ci tiene a dire la sua anche una rappresentante del movimento Donne in Nero. Si tratta di un movimento nato in Israele dopo la prima Intifada, su iniziativa di alcune donne israeliane che hanno iniziato a manifestare contro il proprio governo perché occupava la Cisgiordania.
Secondo lei, l’Europa non sta facendo nulla per risolvere il conflitto. Con un’unica eccezione: “Purtroppo non è soltanto il nostro governo, l’Europa non sta facendo nulla, come non lo stanno facendo anche altre forze politiche come l’America. L’unico che sta facendo qualcosa, [a cui] hanno delegato tutto, è Erdogan; mi sembra veramente poco”.
Il punto di vista dei giovanissimi
In questa manifestazione i giovanissimi sembrano avere le idee molto chiare. È certamente il caso di Cecilia e Anna, 16 e 17 anni, che sono qui a manifestare con un collettivo studentesco.
Loro hanno una visione molto ampia circa la manifestazione e il suo scopo: “per il cessate il fuoco. Ma noi siamo qui per vedere se questa è come altre manifestazioni, perché molte non prendono le parti del popolo. Molte dicevano ‘Israele m****a’ senza pensare alla popolazione.
Vogliamo vedere se i popoli delle fazioni israeliana e palestinese sono presi in considerazione […] Ci sono molti israeliani e palestinesi che pensano che si dovrebbe smettere di fare la guerra”. Le responsabilità, insomma, sono dei governi. E sono bipartisan: “Hamas ha fatto una strage indicibile ma anche il governo israeliano si sta macchiando di crimini indicibili contro l’umanità”.
Anna porta l’attenzione sulle responsabilità dell’Occidente: “Io manifesto anche per rendere noto lo squilibrio che c’è tra le forze di Hamas e le forze israeliane: queste ultime sono forze di Stato, aiutate dagli Stati Uniti e da quasi tutto l’Occidente, invece le forze di Hamas sono aiutate dall’Oriente. Quindi il conflitto ha una base di cui noi abbiamo colpa, come Occidente. Un conflitto come la Guerra Fredda non è ancora finito, perché ancora oggi Oriente e Occidente si mettono l’uno contro l’altro”.
Entrambe sottolineano un fatto paradossale: “Noi, nazioni esterne, ci siamo prese il diritto di dare a Israele uno Stato in un luogo nel quale delle persone già vivevano. E abbiamo messo dei confini con il righello, esattamente come abbiamo fatto in Africa. Ci presi il diritto di fare una cosa che non era tra i nostri diritti”. Secondo le ragazze, è comunque sacrosanto che sia Palestina che Israele abbiano il proprio Paese.
E Giorgia Meloni cosa dovrebbe fare? “Dovrebbe sentire il suo spirito di donna, madre e cristiana e far capire ai suoi compagni di partito che prima di tutto bisogna pensare ai civili, alle persone, a tutti coloro che soffrono in questo momento. Dovrebbe fare appello alla sua coscienza”.
Il focus sul genocidio del popolo palestinese
La maggior parte delle persone scese in piazza a manifestare lo fa soprattutto per alzare l’attenzione sul genocidio in atto ai danni del popolo palestinese. Gli slogan denunciano, comunque, una massiccia presenza dichiaratamente anti-sionista: assente, invece, qualsiasi espressione di antisemitismo.
La rabbia della folla è soprattutto rivolta al governo di Netanyahu, mentre inneggia: “Israele terrorista, Netanyahu assassino”. Si rimarca la natura anti-fascista della manifestazione: “Siamo tutti anti-fascisti!”.
A proposito di fascismo, nel cuore del corteo c’è un breve momento di tensione per un manifestante che, affiancato da bandiere palestinesi, sfida indossando la kefiah e imbracciando una bandiera italiana.
Lo invitano ad andarsene: in quel contesto, il Tricolore appare come una beffa, poiché rappresenta anche il governo in carica. Lui si giustifica per la sua scelta e, con la mediazione di alcuni partecipanti, tutto torna rapidamente alla normalità.
Un altro slogan ricorrente, più guerrafondaio degli altri, è “Se non cambierà, intifada pure qua”. Uno slogan meno pacifista di quanto dovrebbe essere in una manifestazione per la pace, ma giustificato dalla rabbia che scaturisce dall’attuale situazione.
In Palestina come in Egitto
La folla passa davanti al Colosseo a Roma. Ci imbattiamo in un gruppo di mamme di origini marocchine ed egiziane che partecipano alla manifestazione con i figli. Una di loro, Sara Said, 31 anni, accetta di parlarci della sua partecipazione.
“Non abbiamo mai mancato una manifestazione per la Palestina, in quanto non ha mai avuto voce nel mondo. Cerchiamo di essere sempre presenti per dare una voce al popolo palestinese”. Aggiunge: “Attualmente, la manifestazione è per il genocidio in corso. Che non è solo una risposta all’attacco subìto, ma è una scusa per sterminare un popolo intero. Fermare un genocidio significa anche libertà e pace”.
Per quanto riguarda la posizione dell’Italia nei confronti della risoluzione Onu, Sara ricorda: “Non è la prima volta che l’Italia prende una posizione neutra o addirittura negativa nei confronti dei popoli oppressi, come abbiamo visto in Siria, o anche in Egitto. Infatti l’Italia ha cominciato ad accusare l’Egitto soltanto quando Regeni è stato ucciso, ma finora si è sempre sostenuto il regime”.
Il corteo raggiunge Piazza San Giovanni (Roma), mentre dai megafoni del camion si ricorda che “il terrorismo è lo strumento delle destre” e si approfitta dell’occasione per ricordare un uomo politico, uno dei pochi, che si è sempre schierato dalla parte dei palestinesi: Enrico Berlinguer.
In piazza splende una luna piena sorprendente. Si crea una catena umana per invitare la folla a distribuirsi uniformemente nello spazio senza assieparsi vicino al camion. A questa catena di mani che si intrecciano partecipiamo anche noi, stringendo quelle dei tanti palestinesi che sono scesi in piazza oggi.
La folla si sparpaglia, la catena si spezza. E noi ci auguriamo che queste mani, un giorno, possano essere le mani giunte e unite del popolo israeliano e di quello palestinese, finalmente liberi di riconoscersi come fratelli, senza più guerre.