«È come se Netflix fosse entrata al ministero» ha dichiarato Francesco Oggiano, giornalista e fondatore di Will Media, in merito al video girato dal vicepremier Salvini all’indomani della sua condanna a sei anni di carcere per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio. «Inquadratura frontale a mezza altezza, formato cinematografico orizzontale 16:9. Protagonista del video che guarda in camera e si apre allo spettatore». Musica thriller, sfondo nero, secondo Oggiano con questo filmato il leader della Lega intende spostare l’attenzione dall’accusa di sequestro di persona e violazione dei diritti dei migranti per cui è stato condannato a sei anni di carcere, alla questione della “difesa dei confini”.
E parrebbe esserci riuscito. I pm che si sono pronunciati contro l’attuale ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture denunciano infatti di essere vittime di una campagna d’odio virtuale, ricevendo insulti e minacce (anche di morte), tanto che Lia Sava, procuratrice generale, ha parlato di “rischio sicurezza”. La sentenza dalla quale è partita la campagna social contro i giudici si è pronunciata in merito ai fatti dell’agosto 2019. Salvini era ministro dell’Interno del primo governo presieduto da Giuseppe Conte e, per diciannove giorni, impedì lo sbarco a Lampedusa di 147 migranti che si trovavano sulla nave dell’ong spagnola Open Arms.
«Da quanto presentato dalla procura, la decisione di Salvini di non far entrare Open Arms nei porti è stata esclusivamente una scelta personale, non una linea del governo italiano. (…)» ha commentato Oscar Camps, fondatore di Open Arms. «Tutti trovavano strana l’idea di non far sbarcare queste persone, date le circostanze. (Si è trattata della) decisione personale di un membro del governo che ha agito da solo e che deve assumersi la responsabilità di tale scelta, della violazione di tutte le convenzioni, del diritto marittimo e della carta dei diritti umani».
Commenta Alice di Baobab experience, associazione che si occupa dell’accoglienza dei migranti: «Quando non si riesce nel tentativo di lasciar morire in mare i migranti o di riconsegnarle agli aguzzini libici e tunisini, bisogna trovare un colpevole dello sbarco».
In questo caso si è cercato di farlo con Open Arms. Ma il presunto colpevole può anche essere un individuo: è il caso di Maysoon Majidi, regista curdo-iraniana di 28 anni fuggita nel 2023 dal regime iraniano con l’intenzione di chiedere asilo in Germania. Il 31 dicembre è approdata sulle coste calabresi, nelle cui carceri è reclusa da nove mesi con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secondo la Procura di Crotone infatti, Majidi sarebbe stata “l’aiutante del capitano” perché avrebbe distribuito cibo e acqua: tanto basta secondo l’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione (considerato illegittimo da associazioni come Amnesty International) a fare della donna una “scafista”.
«Le persone che lo Stato italiano continua ad accusare sulla base di testimonianze ambigue, prove insufficienti e processi farsa sono moltissime» scrive Baobab Experience. «A volte il cosiddetto scafista è una persona costretta dietro minacce e violenza a guidare l’imbarcazione, altre è chi si è pagato il prezzo altissimo dell’attraversamento con l’impegno di governare il timone, più spesso è un passeggero qualunque accusato e condannato attraverso testimonianze equivoche, prove insufficienti e processi sommari» racconta Alice. «Maysoon è una di queste vittime, tutt’altro che un’eccezione, ma il simbolo di un fenomeno diffuso. È stato stimato che circa 1 persona ogni 300 sbarcate subisce questa sorte, nella totale sospensione dello stato di diritto».
Il 18 settembre, nel secondo anniversario dell’uccisione di Mahsa Amini e dell’inizio del movimento di protesta che è costato la vita e la libertà a moltissime donne iraniane, a Crotone ha avuto luogo la terza udienza del processo a carico della donna, già in sciopero della fame. «A Maysoon sono stati di nuovo negati gli arresti domiciliari» conclude Alice. «Una violenza ulteriore, certamente non giustificata dal pericolo di fuga ma volta a annientare ancora di più una giovane donna che sa come far sentire la sua voce. Il timore evidente è che l’eco della sua storia possa farsi ancora più acuto».
Serena Ganzarolli