A sei anni dalla distribuzione italiana di Downsizing, Alexander Payne torna nelle nostre sale con l’acclamatissimo The Holdovers; il film, presentato in anteprima al Telluride Film Festival del 2023, ha riscosso sin da subito il plauso unanime di critica e pubblico e si è guadagnato una serie lunghissima di premi, candidature e riconoscimenti in moltissimi festival cinematografici.
In questa sua ultima opera, il regista statunitense regala al pubblico un film tanto polivalente e gradevole quanto poco originale. Tuttavia, questa mancata originalità non rappresenta un difetto per la pellicola: non è, infatti, nelle sorprese o nei colpi di scena che vanno cercati i punti di forza di The Holdovers quanto piuttosto nelle dinamiche che si vengono a creare tra i protagonisti e soprattutto nel loro percorso di crescita.
Il film, ambientato in un prestigioso istituto del New England a cavallo tra 1970 e 1971, narra delle particolari vacanze natalizie degli unici rimasti tra le mura della scuola durante la chiusura invernale. Un mal assortito trio di protagonisti composto da: Paul, professore di culture antiche e responsabile temporaneo dell’accademia; Angus Tully, studente irrequieto; Mary, cuoca della scuola che ha recentemente perso il suo unico figlio in Vietnam. Nel corso della pellicola i tre, e soprattutto il professore e il ragazzo, impareranno a conoscersi e stringeranno un legame tanto inaspettato quanto indissolubile. Col passare del tempo, infatti, i protagonisti, apparentemente così distanti, capiranno di avere in comune molto più di quello che credono. Tre solitudini che in quelle settimane di vacanza trovano sollievo, conforto e speranza, l’uno nell’altro.
Il punto forte del film The Holdovers sta nella scrittura: sia dello sfondo narrativo, sia dei personaggi. Partendo da questi ultimi: ognuno di loro, con le proprie sfaccettature, emozioni, paure e sensazioni, comunica sin da subito al pubblico una dimensione interiore particolarmente sviluppata; i tre si trovano costretti dalle circostanze ad affrontare situazioni esterne e paure che li attanagliano da sempre. Per quanto il film sia anche una critica alla società statunitense e ai privilegi di cui una piccolissima parte di essa gode a scapito della maggioranza, l’abilità del regista e dello sceneggiatore, in questo caso, sta nel non calcare troppo la mano su questo aspetto: è vero che i protagonisti si lamentano spesso della differenza tra loro e i più fortunati, tuttavia, è altrettanto vero che nei momenti in cui si trovano a far i conti con loro stessi, nessuno dei tre si abbandona a critiche o lamentele sterili; ognuno di essi cerca in sé, e negli altri improbabili compagni, la spinta per crescere ed andare avanti, malgrado tutto.
Per quanto riguarda lo sfondo narrativo, invece, oltre alla già citata critica alla società statunitense, c’è un elemento che tiene banco per l’intero film: la guerra in Vietnam.
Dalla morte del figlio di Mary, alla paura degli studenti, alla minaccia dell’accademia militare per Angus, la guerra in Vietnam è sempre lì dietro.
La fotografia accresce la sensazione di trovarci davvero in un film degli anni ’70: oltre alla splendida scenografia e all’evocativa colonna sonora (composta da brani originali e canzoni dell’epoca), infatti, Alexander Payne e Eigil Bryld, il direttore della fotografia, operano alcune scelte specifiche che caratterizzano fortemente l’aspetto visivo del film; dal tono dei colori, alle inquadrature, dalle zoomate repentine ai movimenti di macchina, passando persino per le scritte e le grafiche dei titoli di testa e coda, l’approccio è in tutto per tutto affine al modus operandi del cinema anni ’70 e della New Hollywood.
Infine, a far da ciliegina sulla torta, c’è la recitazione: i tre attori protagonisti danno prova di grande abilità e maestria; persino Dominic Sessa, interprete di Angus e in questo film all’esordio assoluto sul grande schermo, recita in maniera impeccabile. Per quanto riguarda Paul Giamatti, il professore Paul, e Da’Vine Joy Randolph, Mary, basterebbe citare la loro freschissima vittoria ai Grammy Awards, rispettivamente nella categoria Miglior attore in un film o commedia musicale e Miglior attrice non protagonista, ma vale la pena elogiare anche l’abilità con la quale entrambi passano dalla commedia al dramma (e viceversa) in un batter d’occhio.
The Holdovers è un film tanto semplice quanto complesso, in grado di comunicare allo spettatore la paura e, al tempo stesso, la smania di vivere. La vita che ognuno dei protagonisti sceglie come vivere, nonostante i numerosi ostacoli e le frequenti barriere imposte dalle circostanze.
Sebastian Angieri