Uscito nelle sale cinematografiche italiane il 23 febbraio “The Whale” segna il ritorno di Darren Aronofsky alla regia a cinque anni di distanza dalla sua ultima fatica “Madre!”. Il film è tratto dall’opera teatrale omonima scritta da Samuel D. Hunter che ha anche curato la sceneggiatura del film.
La vicenda narrata tratta della storia di Charlie, un professore universitario di scrittura prossimo alla morte, che vive la sua vita imprigionato nella sua abitazione a causa dei suoi gravi problemi di obesità. La pellicola segue l’ultima settimana di vita del protagonista che cerca di mettere a posto la sua vita e di “fare l’unica cosa giusta della sua vita” riallacciando i rapporti con la figlia Ellie, abbandonata molti anni prima, e risvegliando in lei l’amore per gli altri. A ciò va aggiunto l’arrivo casuale di Thomas, un giovane missionario della congrega ecclesiastica “New Life” che risveglia in Charlie i ricordi e i traumi che l’hanno portato alla condizione patologica in cui riversa.
Tale film di fatto è una reprise dei temi già trattati in un precedente film di Aronofsky stesso, “The Wrestler”; tuttavia, nonostante le somiglianze siano moltissime, la differenza tra le due opere è profondissima.
Entrambi i film trattano di un uomo dalla vita distrutta che cerca attraverso un nuovo legame con la figlia la sua redenzione. Ma se da una parte “The wrestler” riesce nella sua linearità e apparente semplicità a comunicare allo spettatore la reale interiorità del protagonista (e dei suoi comprimari), dall’altra “The Whale” si perde in un vortice di confusione e di sottotrame, a mio avviso, mal sviluppate.
L’uso di allegorie e di un sottotesto metanarrativo, del tutto assente in “The Wrestler”, svolge un ruolo topico in “The Whale”, e oltre a rendere il film più ingarbugliato e, a mio avviso, falsamente profondo, allontana anche lo spettatore dalla reale comprensione del protagonista.
Nella sua brutale onestà il primo dei film citati ci pone davanti un uomo che ha scrutato nella sua profondità e che ha concluso che è incapace di cambiare. Questa incapacità ne decreta la morte senza redenzione. Il secondo, invece, gioca su delle ambiguità di fondo che fa apparire agli occhi dello spettatore il protagonista bisognoso di compassione quando per certi versi è lui stesso a rifiutare tale sentimento. Tutto ciò inoltre viene affossato da una trama a tratti banale e a tratti confusionaria.
Dal punto di vista della regia e delle scelte autoriali il film è ben ragionato. La messa in scena, per ovvie ragioni, è teatrale. Il film è ambientato in un unico ambiente: la casa del protagonista (e per la maggior parte del film nel salone). L’abitazione, perennemente al buio e con le finestre chiuse, comunica sin da subito l’estrema vergogna che prova il protagonista e la sua reticenza sia di mostrarsi al mondo e sia di farne parte. I movimenti di macchina, e gli stacchi di camera (a volte frequenti e a volte rari) restituiscono alla grande la difficoltà che Charlie ha nel compiere qualsiasi azione apparentemente semplice. Inoltre, per incrementare la sensazione di prigionia e di claustrofobia il film è stato girato in 4:3.
Le prove attoriali sono degne di disamina. Partendo dai comprimari: Sadie Sink, nel ruolo della figlia Ellie, sebbene non esca dalla tipica rappresentazione stereotipata dell’adolescente recita in modo sufficientemente convincente; Ty Simpkins, nel ruolo del predicatore, soffre della scrittura confusa del personaggio da lui interpretato. Hong Chau, che interpreta l’infermiera personale e amorevole amica del protagonista, regala agli spettatori una grande interpretazione. Infine, Brendan Fraser interpreta in modo convincente il protagonista: un uomo costretto a combattere continuamente con le difficoltà che gli si parano davanti, siano esse dovute alla sua fragilità emotiva o alla sua disabiltà. Tuttavia, nonostante, stia suscitando il plauso unanime di critica e pubblico, ritengo la sua interpretazione, seppur con dei picchi di assoluto valore, soggetta ad una sopravvalutazione data da due fattori in particolare: in primis l’affetto che il pubblico nutre nei confronti di quello che, fino a poco fa, era di fatto una ex star hollywoodiana sul viale del tramonto; in secondo luogo a causa della vicenda narrata estremamente patetica ed emotiva che, al netto di evidenti difetti, evoca nello spettatore una sensazione di forte empatia.
In conclusione “The Whale” è un film che vive proprio grazie all’empatia del pubblico per il suo personaggio e soprattutto per l’attore che lo interpreta e che sebbene ci provi dall’inizio alla fine non riesce a fare quel passo in più.
Sebastian Angieri