«Io avevo le scarpe da soldato, lei girava con i sandali. Io mi portavo appresso le guardie armate, lei si sedeva in mezzo alla gente. Lei voleva che le persone gli raccontassero la loro storia». Così Albero Calvi, cineoperatore, ricorda Ilaria Alpi, 32 anni, arabista e giornalista romana del Tg3. Tra il 1992 e il 1994, i due trascorrono duecento giorni nella Somalia attraversata da una guerra civile mai terminata, iniziata con la crisi del regime di Mohammed Siad Barre negli anni ‘80. In quel biennio, Alpi non si limita a documentare l’operazione Restore Hope con cui le Nazioni Unite aiuterebbero la popolazione, ma indaga sugli interessi che si celano dietro alla cosiddetta “malacooperazione”, ovvero la cooperazione internazionale gestita in modo poco trasparente. Lo fa parlando dei somali, delle loro verità e delle storie, soprattutto grazie alle relazioni che stringe con le donne del posto. È così che viene a conoscenza di una circostanza fondamentale. «È la storia della mia vita, devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine», dice la giornalista all’indomani della partenza per il suo settimo e ultimo viaggio in Somalia. Ci andrà, questa volta, insieme a un altro cineoperatore, il triestino Miran Hrovatin, 45 anni. La “storia” cui allude Alpi sarebbe un possibile traffico internazionale di armi e rifiuti tossici sversati in Africa in cambio di armi, e che vedrebbe coinvolta anche l’Italia.
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Il 20 marzo 1994 Alpi e Hrovatin sono a Mogadiscio, in viaggio su un fuoristrada, quando vengono uccisi a poca distanza dall’ambasciata italiana. Subito, la versione ufficiale insiste sulla rapina finita male, ma qualcosa non torna: le valigie dei reporter sarebbero state aperte, il taccuino rosso di Alpi scomparso, l’intervista chiave a Bogor, sultano di Bosaso, risulterebbe manomessa.
Inizia così l’altra storia, quella della lotta per la verità su Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, condotta da tre donne che non hanno mai temuto di mettere le mani in una vicenda losca. La prima che non crede alla versione della morte accidentale è Luciana Alpi, con il marito Giorgio. La affiancherà Mariangela Gritta Grainer, presidente dell’Associazione dedicata alla giornalista. Infine Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto? che, con un’appassionata inchiesta, ha dato una svolta fondamentale a una storia di falsi colpevoli, finti innocenti e continue richieste di archiviazione, iniziata con un’autopsia mai fatta sul corpo di Ilaria Alpi. Solo due anni dopo, a seguito della riesumazione della salma ordinata dal pm Giuseppe Pititto, la superperizia stabilirà che Alpi non è stata uccisa da una raffica di proiettili, ma da un colpo solo sparato da vicino. Confermando così quanto dichiarato dal dottor Armando Rossetti, il primo a esaminare il corpo della giornalista a Mogadiscio e i cui referti spariscono per ricomparire anni dopo.
La teoria dell’esecuzione portata avanti da Luciana e Giorgio Alpi si fa sempre più concreta. Eppure, nel 1998 i periti Carlo Torre e Pietro Benedetti (gli stessi che sosterranno che Carlo Giuliani fu ucciso da un proiettile vagante deviato da un calcinaccio) ribaltano l’ipotesi: la coppia di giornalisti sarebbe stata uccisa da un colpo accidentale. Tesi sempre respinta dalla famiglia e, nel 2010, anche dal gip Cersosimo che rigetterà la richiesta di archiviazione del pm Franco Ionta.
Sull’omicidio casuale insiste anche, nel 1998, l’indagine di Giuseppe Cassini, ambasciatore italiano in Somalia, e che porterà all’incarcerazione del cittadino somalo Hashi Omar Assan. Il 12 gennaio di quell’anno Assan viene arrestato mentre era a Roma per testimoniare di fronte alla Commissione Gallo sulle presunte torture dei soldati italiani in Somalia, portate alla luce da un’inchiesta di Panorama. Assan è accusato dall’autista dei due reporter, Ali Mohamed Abdi Said, deceduto nel 2010 in Somalia in circostanze misteriose, e da un cittadino somalo, Ali Ahmed Ragi, detto “Gelle”. Condotto in Italia da Cassini e seguito assiduamente dalla Digos nel suo soggiorno a Roma, il supertestimone Gelle sparirà dall’Italia in circostanze misteriose, senza mai riferire in tribunale le sue accuse contro Assan. Ciononostante, l’uomo verrà condannato all’ergastolo. Alla sua colpevolezza, Luciana Alpi non ha mai creduto: «Un poveraccio che ha pagato con 26 anni di carcere perché qualcuno lo ha indicato come membro del commando che aggredì e uccise mia figlia e Miran», commentava nel 2014 a Repubblica.
La svolta arriva nel 2015 grazie al certosino lavoro di inchiesta di Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto?, che riesce a rintracciare Gelle, residente in Gran Bretagna. «Pensavo di trovarmi di fronte una persona ostile, che non avesse voglia di parlare. Invece mi ha raccontato per filo e per segno quello che era successo: lui non era lì, non aveva visto niente» spiega la giornalista alla presentazione del libro di Luciana Alpi, Esecuzione con depistaggi di stato. «Alcuni italiani avevano offerto a Gelle dei soldi e un passaporto per scappare dalla Somalia in guerra in cambio di una falsa testimonianza: indicare un capro espiatorio, cioè Hashi Omar Assan, che era già in Italia e che doveva testimoniare contro le violenze subite da parte dell’esercito italiano». Soprattutto, Gelle riferisce a Cazzaniga un particolare fondamentale: gli italiani gli avevano chiesto di dire che era stata una rapina. Lui lo farà pensando che, non presentandosi al processo, Assan non sarebbe stato condannato.
Dopo sedici anni di carcere da innocente, Hashi Assan viene assolto per non aver commesso il fatto e l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin torna a non avere un colpevole. Nel luglio 2022 Hashi sarà ucciso da una bomba piazzata sotto al sedile della macchina, aggiungendosi alla lista delle morti misteriose seguite all’assassinio dei due reporter. Il colpevole di tutti questi omicidi non è ancora stato trovato, nonostante la desecretazione degli atti della Commissione parlamentare voluta dall’allora Presidente della Camera Laura Boldrini nel 2013 farà emergere che i servizi segreti, nei giorni immediatamente successivi all’assassinio, scrivevano: «Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione».
Proseguono comunque, imperterrite, le richieste di archiviazione, cui la famiglia e l’Associazione Ilaria Alpi si oppongono, insieme all’organizzazione “Noi non archiviamo”. «Tutta la vicenda è percorsa da una serie di morti assassinati o dubbie» commenta Mariangela Grainer a 30 anni dall’omicidio. «Hanno tentato di cancellare tutti i possibili testimoni: l’autista di Ilaria, il capo della polizia somala, ma potrei citarne 10. Sono spariti tutti i documenti e le foto. […] Ilaria lavorava sui traffici illeciti di ogni tipo, prodotti in Somalia in cambio di armi alla guerra civile. Lei sapeva, lavorava su questo».