Turchia, “democratura” all’attacco delle libertà

Turchia, “democratura” all’attacco delle libertà

Selahattin Demirtaş dovrà scontare 42 anni di detenzione: respinta la richiesta di ergastolo. La sentenza è arrivata nel maggio di quest’anno e ha previsto il prolungamento della detenzione dell’ex candidato alle presidenziali turche, nonché leader del Partito democratico dei popoli (Hdp). Con lui, altri 108 imputati nel Processo Kobane sono stati condannati per aver, recita l’accusa, «minato l’integrità territoriale del paese», nonché per connessioni con le organizzazioni curde (Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan) giudicate terroriste dal governo di Ankara. Fin dalla sua nascita l’Hdp è stato avversato politicamente e giuridicamente dall’allora (e attuale) Presidente Recep Tayyip Erdoğan in quanto gran parte dei suoi dirigenti e militanti provenivano dal sud est del paese (a maggioranza curda) e si dichiaravano apertamente di nazionalità curda. Ma soprattutto perché, secondo Ankara, l’Hdp ha rappresentato una sorta di ponte nel Parlamento turco per le organizzazioni armate curde, nonché di essere una sorta di propaggine legale del Pkk. Legami presunti, ovviamente.

Riavvolgiamo il nastro: il 2014
Siamo al 2014 e l’Hdp sta emergendo come forza politica d’alternativa. Ma il partito non è semplicemente un’organizzazione filo-curda, come spesso si leggeva sui quotidiani italiani ed europei: si trattava di un esperimento politico che spalleggiava SYRIZA e quanto stava conducendo Alexis Tsipras in Grecia, a seguito della mobilitazione del referendum sul ‘no’ (Οχι) al memorandum. Sappiamo come andò a finire: il Primo ministro greco venne messo alle strette dopo giorni di trattative con la Troika, il memorandum non solo venne applicato ma fu anche più duro degli altri. Ma questa è un’altra storia.

Nello stesso anno la Siria e l’area del Vicino Oriente erano sconvolte dallo Stato Islamico la cui scure si stava abbattendo proprio sulla minoranza curda e sulle città difese dalle sole unità militari curde del Pkk, delle Ypj/Ypg insieme ad altre formazioni minori indipendentiste fino ad arrivare ad alcune organizzazioni anarchiche. Le strutture maggiori (Pkk, Ypj/Ypg) che si battevano (e ancor oggi lo fanno) per il confederalismo democratico in contrapposizione alle democrazie che nel corso degli anni hanno subito una torsione in senso autoritario, stavano subendo un duro colpo. In quell’anno l’Hdp conduce una battaglia senza quartiere nelle città governate dal partito nella parte sud del paese in solidarietà con la popolazione di Kobane e di ogni cittadina del Rojava che si trovava a fronteggiare Daesh (Isis). La solidarietà e le manifestazioni iniziano a dilagare in tutta la Turchia: l’Hdp guadagna sempre maggiore popolarità e consenso.
Ma per la Turchia, il Kurdistan non esiste e chi si candida a rappresentare i curdi al Parlamento è, nei fatti, un sostenitore delle forze giudicate terroriste da Ankara. Lo spettro del Pkk e del suo leader Abdullah Öcalan (in prigione dal 1999 nel carcere di İmralı, unico detenuto nell’isola-penitenziario) aleggiano in perpetuum sullo stato turco.

L’ascesa politica e mediatica di Selahattin Demirtaş e dell’opposizione di sinistra al governo di Erdoğan era riuscita fin troppo bene: riuscì a superare la soglia di sbarramento del 10% alle elezioni del 2015 e ad imporsi come prima forza politica nella parte del paese a maggioranza curda.

Nel confronto militare tra unità del Rojava e Daesh, i curdi ebbero la meglio col passare del tempo, sebbene pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e di distruzione: nei giorni in cui Kobane sembrava cadere, l’Hdp (dunque Demirtaş e la co-presidente del partito Figen Yüksekdag) scese in piazza solidarizzando con il Rojava chiedendo l’intervento militare di Ankara a sostegno dei curdi. Ci furono mobilitazioni in tutto il Paese, ma ad Ankara si verificò un attentato che provocò decine e decine di morti. Nonostante tutto, l’Hdp cresceva nel consenso popolare e il processo di democratizzazione (e normalizzazione) della questione curda nel paese poteva dirsi in procinto di cominciare, anche se la tregua (dopo le proteste del 2014/2015) aveva fatto naufragare la tregua tra il Pkk e lo stato turco. Da questi fatti ha iniziato a prendere vita il Processo Kobane.

Perché Demirtaş è in carcere?
Il 2016 è un anno cruciale, non già per il tentato golpe di cui venne subito accusato Fethullah Gülen ma perché Erdoğan non avrebbe voluto che la questione curda potesse diventare un ostacolo alla sua affermazione del potere. Dunque arriva la proposta di revoca dell’immunità parlamentare per i deputati d’opposizione. Il partito – che si pone come opposizione (pur blanda) ad Erdoğan – vota a favore del provvedimento. L’accusa è indirettamente rivolta ai deputati neo eletti dell’Hdp additati di compromissione terroristica a scopo di divisione dell’unità nazionale. Dal Corriere della Sera di quei giorni [21 maggio 2016]: «”È un voto storico. Il mio popolo non vuol vedere in questo parlamento colpevoli di reati, in particolare i sostenitori delle organizzazioni terroriste del separatismo”. Un chiaro riferimento ai rappresentanti dell’Hdp da sempre accusati dal sultano di Ankara di essere il braccio politico dei terroristi del Pkk. […] La decisione del parlamento è la pietra tombale sulla speranza di riavviare il processo di pace con la minoranza curda».
Il casus belli è del 2016: nel novembre un’autobomba esplode nella città a maggioranza curda di Diyarbakır. Per la Turchia è la prova che il Pkk non ha mai smesso le proprie attività criminali ma in serata l’attentato viene rivendicato da Daesh e non dai curdi. Ma per Erdoğan non c’è ragione che tenga: la sera stessa dell’attentato Demirtaş e Yüksekdag vengono condotti in carcere. Le presidenziali del 2018 vedono l’Hdp ancora una volta candidarsi con Selahattin Demirtaş come candidato, nella speranza della sua scarcerazione. Il candidato non «verrà liberato», secondo Erdoğan, e l’Hdp si pone sotto la soglia del 10%, pur continuando ad affermarsi nel sud est del paese. Nello stesso ano l’esercito turco fronteggia militarmente le milizie curde e occupa la città simbolo di Afrin.

Una «democratura»
Il partito di cui era rappresentante Demirtaş ora è stato sciolto per intervento dell’autorità giudiziaria e dalle sue ceneri è nato il Partito per l’uguaglianza dei popoli e la democrazia, spesso abbreviato in Dem il quale, da poco, è risultato nuovamente il partito più votato nella città di Diyarbakır. Nel frattempo, però, a molti esponenti politici turchi di opposizione e di sinistra, curdi e socialisti, è stata confermata la sentenza da parte della giustizia turca, sebbene la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) avesse già formalmente condannato la detenzione ai danni dei due ex segretari dell’Hdp, di cui pure Erdoğan si fece beffe dichiarando: «il parere della Cedu non ci vincola». Le sentenze del maggio 2024 sono state commentate così dal vicepresidente del Chp Özgür Özel (e riportate in Italia attraverso la voce di Mariano Giustino di Radio Radicale): «Il caso [del processo] Kobane per cui è stato condannato Demirtas rappresenta un caso politico non suffragato da un giusto processo».
La democrazia turca nel frattempo ha già attraversato la fase di lungo regresso ed ha ora abbracciato un nuovo periodo, a seguito delle modifiche costituzionali promosse e approvate dal Presidente Erdoğan. Analisti e saggisti iniziano ad utilizzare il termine democratura (una democrazia formale ma con torsioni autoritarie di fatto) con sempre maggiore disinvoltura anche e soprattutto per quel che riguarda lo stato turco. L’unica cosa certa è che per il momento Demirtaş rimane in carcere, così come la co-presidente del fu Hdp, così come per il leader del Pkk Abdullah Öcalan. L’opposizione curda dovrà riprendersi e assestarsi nuovamente dopo il colpo subito mentre la temperatura della febbre contratta dalla democrazia turca continua a salire.

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