Dopo due anni di pandemia, partire per un reportage che mi avrebbe portato a viaggiare lontano dall’Italia per più di un mese, oltre a rappresentare una nuova avventura dal punto di vista professionale, mi dava come l’idea di spalancare una finestra sul mondo che per troppo tempo era rimasta chiusa.
Era da più di dieci anni che non lavoravo ad un documentario, l’ultima volta era stata in occasione del terremoto de L’Aquila quando, spinto da motivi molto più personali, sentendo quasi la necessità di testimoniare quello che era successo ad una terra a me molto cara e che ospitava persone a me molto vicine, mi ero buttato a capofitto in un lavoro che non avevo mai affrontato prima. Più di dieci anni dopo il mio percorso professionale mi ha portato molto lontano dal documentario. La pubblicità, i videoclip, la televisione mi hanno portato a lavorare molto su una ricerca dell’estetica funzionale a raccontare altre storie, a comunicare in altro modo. Mi sono dovuto confrontare con la necessità di continuare nel mio percorso di ricerca spesso facendo compromessi con quelle che erano le esigenze di clienti, agenzie o artisti con cui ho collaborato. Quando con L’Atlante si è cominciato a parlare di Ungheria21, di raccontare quello che stava (e sta ancora) succedendo in quel Paese, di farlo attraverso una serie di linguaggi diversi, dall’audiodocumentario alla fotografia alla parola scritta, non ho esitato un secondo ad accettare. Conoscevo abbastanza bene la situazione politica ungherese, ricordavo le immagini dei migranti ammassati alla frontiera davanti a un muro di filo spinato, avevo letto della legge anti-LGBQT portata da Orbán in parlamento, ma immergermi in quella realtà per raccontarla è stata, ovviamente, un’altra storia.
Raccontare attraverso le immagini le contraddizioni di un paese straniero nel quale ero stato solo da viaggiatore mi ha portato a farmi molte domande. Come mi sarei relazionato con una realtà di cui avevo solo letto sui giornali? Cosa avrei provato ad incontrare i migranti che si nascondono nei villaggi abbandonati lungo la tripla frontiera? Come mi sarei posto davanti alle dichiarazioni di politici di un partito come Jobbik? E, soprattutto, come avremmo fatto a sopravvivere in 5 per più di un mese dentro un Opel Astra? Più passavano i giorni e i km e più tutto questo è diventato fluido e naturale, più aumentavano la stanchezza, i piatti di gulash e i litri di palinka e più il racconto si componeva. Abbiamo ascoltato le voci di centinaia di persone, abbiamo posto domande, abbiamo cercato di capire, ci siamo confrontati tra noi nei lunghi spostamenti tra i campi di girasole e ciò che ne è uscito fuori è un racconto nel quale si è guidati solo ed esclusivamente dalle voci dei protagonisti, non c’è una voce fuoricampo che spiega o illustra un punto di vista, ci sono tante voci che come l’insieme di tante pennellate dipingono un quadro reale di quella che è apparsa ai nostri occhi l’Ungheria nel 2021.
In pubblicità spesso si costruisce attraverso l’immagine il desiderio verso un prodotto, nell’Ungheria di oggi, invece, la politica costruisce un immaginario basato sulla ricerca costante di un nemico: i Rom, i migranti, la comunità LGBQT le ONG.
Durante questo viaggio leggevo Europa 33 di Geroge Simenon che aveva attraversato mezza Europa in treno ed era passato anche per l’Ungheria. Quei campi e quei paesi che lui descriveva noi ora li stavamo attraversando in macchina incontrando quelli che erano i discendenti delle donne e degli uomini da lui incontrati ed è stato impossibile non fare delle comparazioni con quanto raccontato dallo scrittore francese. Le frontiere che si chiudevano allora prendono la forma di un muro di filo spinato dai cui altoparlanti si intima ai migranti di tornare indietro, le case ungheresi tutte uguali sono ora i palazzi di cemento armato di eredità sovietica, i fascismi che prendevano forza allora si incontrano oggi nei cartelloni propagandistici contro l’Europa e le minoranze attaccati in tutto il Paese. E le persone? Molta gente ha deciso di vivere in una sorta di “indifferenza programmata” dove girarsi dall’altra parte aiuta a vivere meglio, alcuni sono vittime della propaganda governativa e vivono nella paura di un’invasione da parte di un nemico che non esiste, altri ancora si battono per i diritti civili e per un futuro diverso, ma dopo 12 anni di governo Orbán le loro posizioni sono fortemente messe in discussione. Di tutto questo parla il nostro lavoro, le immagini e le voci sono quelle di queste persone, in esso si mischiano le voci dei migranti al confine e la gente al mercato, i cieli ungheresi e la festa nazionale, le contraddizioni di un piccolo paese nel mezzo dell’Europa che è però paradigma di una nuova direzione sovranista e reazionaria che si affaccia nuovamente all’alba degli anni ’20.
Sabato Angieri