Uniti dagli stessi colori: come arginare il razzismo. Anche allo stadio

Uniti dagli stessi colori: come arginare il razzismo. Anche allo stadio

C’è una piaga, che macchia di disonore uno sport di origini nobili come il calcio. E proviene, nella maggior parte dei casi, dalle tifoserie sugli spalti.

Il razzismo negli stadi è un problema più attuale che mai. La Figc sta promuovendo con forza la campagna #UnitiDagliStessiColori, che il 9-10 aprile arriverà negli stadi in occasione delle partite dei club maschili di Serie A, B e C.

Prevede l’esposizione di striscioni ad hoc e l’adesione pubblica dei direttori di gara, che indosseranno le magliette ufficiali della campagna.

Il razzismo in ambito sportivo, e calcistico in particolare, è più vivo che mai: lo dimostrano i numerosi episodi che si verificano sui campi da calcio, di tutte le serie e di tutte le nazioni.

Razzismo negli stadi: il Regolamento di Giustizia Sportiva

In Italia, è in vigore il Regolamento di Giustizia Sportiva. Che non lascia adito a fraintendimenti: “Le società sono responsabili per l’introduzione o l’esibizione negli impianti sportivi da parte dei propri sostenitori di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni di discriminazione. Esse sono responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione. In caso di prima violazione, si applica la sanzione minima”. Sanzione minima che prevede l’obbligo di disputare o più gare con uno o più settori privi di spettatori.

Gabriele Gravina

Un semplice daspo, però, non basta ad arginare gli episodi di razzismo: è di questo avviso anche Gabriele Gravina, presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC). Che sul tema ha dichiarato: “In questa fase post pandemica le modalità di aggressione verbale sono aumentate e questo richiede interventi mirati, una reazione immediata da parte del nostro mondo federale e di tutte le istituzioni. Servono sanzioni più efficaci e stringenti possibile. Non possiamo pensare solo a una misura cautelare di qualche ora, il Daspo è efficace ma deve essere ancora più punitivo in tema di espulsione di questi soggetti dal calcio”.

Le iniziative anti-razzismo: dalla televisione alle pubblicità progresso Non solo sanzioni e misure. Per combattere il razzismo negli stadi si usano tutti i mezzi a disposizione: anche la tv. È il caso di una trasmissione della Rai, Offside Racism, la cui ultima puntata è andata in onda lo scorso 31 marzo alle 17.50 su Rai Gulp.

Ha ospitato i giovani giocatori impegnati nei settori giovanili dei club che militano nella Serie A questa stagione: i protagonisti sono tutti diversi fra loro, di diverse provenienze ed etnie. Tra coloro che hanno preso parte alle puntate ci sono Francis Augustine Wiredu, Rahul Sharma, Nicolò Calabrese, Jean Paul Touadi, Samuel Nwachukwu e molti altri.

Il cuore del progetto, come dimostra il titolo della trasmissione, è proprio quello di sensibilizzare sull’importanza di epurare gli stadi da qualsiasi episodio di razzismo. Striscioni inclusi.

Da alcuni anni, la Serie A porta avanti una campagna istituzionale chiamata Keep Racism Out: tenete il razzismo fuori (dagli stadi). Quest’anno l’iniziativa, lanciata a marzo, vede la partecipazione di molti giocatori della Serie A e di svariati influencer, tra i quali il TikToker Khaby Lame.

Gli episodi di razzismo, numeri alla mano

Lo scorso febbraio, l’Associazione Italiana Calciatori (AIC) ha presentato il suo consueto report annuale, Calciatori Italiani Sotto tiro: questo tiene traccia di tutti gli atti di violenza, razzismo incluso, perpetrati ai danni di calciatori e calciatrici, sia professionisti che dilettanti.

Il report ha evidenziato ben 121 casi di violenza, di cui la stragrande maggioranza è di natura razzista. I giocatori professionisti della Serie A, stranieri e/o di colore, sono i bersagli preferiti. Il mezzo preferito per oltraggiarli? Soprattutto cori (36%) e insulti verbali (22%).

Come prevedibile, la provenienza dei giocatori determina la percentuale di insulti: i più infamati sono i giocatori provenienti dal Sud Italia. Nel 64% dei casi la responsabilità degli atti è da ricondurre ai tifosi avversari. Un caso di razzismo calcistico su due avviene in Nord Italia, in particolare in Lombardia.

 Le tifoserie dei top club

Nelle tifoserie dei club italiani, il razzismo serpeggia e a volte si mostra senza ritegno, come dimostrano gli striscioni razzisti e antisemiti che non possono mai mancare in occasione dei derby Roma-Lazio, quando la rabbia intestina delle tifoserie rivali si scatena. Proprio la tifoseria della Lazio è nota per essere una vera campionessa, in fatto di razzismo.

Torniamo per un attimo al 4 gennaio: siamo allo Stadio Via del Mare della città salentina, gli ospiti sono, per l’appunto i laziali. Vincono i padroni di casa 2-1 mandando su tutte le furie la tifoseria biancoceleste. Che se la prende con due giocatori avversari, Samuel Umtiti e Lameck Banda.

Il risultato: la chiusura della Curva Nord dello Stadio Olimpico, storicamente occupata dalla tifoseria laziale, per un turno. Una sanzione minima, per un episodio che si è ripetuto molte altre volte.

Di fronte ad episodi simili i club non possono fare altro che dissociarsi pubblicamente, come ha fatto in questa circostanza la Lazio: “La S.S. Lazio anche oggi condanna chi si è reso protagonista di questo gesto deprecabile, vergognoso e anacronistico e offrirà come sempre la massima collaborazione alle autorità per individuare i responsabili. I tifosi della Lazio non sono razzisti e non possono essere associati a pochi individui che ledono gravemente l’immagine del club”.

Kalidou Koulibaly

Il razzismo prende di mira, quasi sempre, i giocatori di colore. Torniamo indietro al dicembre 2018, quando andava in scena a San Siro Inter-Napoli: in quell’occasione a ricevere “ululati” razzisti, come li definì Sky, fu l’allora difensore azzurro di origini senegalesi Kalidou Koulibaly, oggi in forza al Chelsea.

In seguito il giocatore dichiarò: “Mi dispiace la sconfitta e aver lasciato i miei fratelli. Però sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano: uomo”. Cinque anni dopo, in un’analoga sfida Inter-Napoli, la tifoseria napoletana si è “vendicata” sulla pelle di un altro giocatore di origini africane, Romelu Lukaku: belga doc ma originario dello Zaire.

Oltre la Serie A

Il razzismo non riguarda solo la Serie A, ma anche le serie minori e, ovviamente, anche il calcio dilettantistico. Proprio il 1 aprile è partito un progetto che si ripromette di tenere d’occhio la situazione razzismo in quest’ambito.

Il progetto, promosso dal Dipartimento di Responsabilità Sociale della Lega Nazionale Dilettanti, consiste in un vero e proprio Osservatorio sul razzismo che sarà a cura del Comitato Regionale della Sardegna e che si occuperà di tenere aggiornata la Lega su base settimanale circa eventuali casi di razzismo sul campo. Letteralmente.

Un problema che ci riguarda. Tutti

Il problema è sentito in tutte le nazioni. Oltreoceano, in Brasile, il problema è considerato un’urgenza nazionale, al punto che a febbraio la Federazione calcistica del Brasile (CBF) ha annunciato una nuova politica di tolleranza zero nei confronti degli episodi di razzismo, che potranno causare la decurtazione di punti delle squadre tifate dai trasgressori.

Il Brasile diventa così il primo paese al mondo ad adottare nel proprio regolamento generale delle competizioni la possibilità di penalizzazione di un club in caso di comportamento razzista. Da punire anche fuori dal campo, come ha precisato il presidente della CBF Ednaldo Rodrigues: “Bisogna fare in modo che qualsiasi atto di razzismo o di discriminazione non muoia solo nell’ambito sportivo, ma che i trasgressori siano anche puniti dalla legge”.

Principe William

In Inghilterra il problema è molto sentito. Recentemente, il Principe William, che oltre ad essere l’erede al trono d’Inghilterra è anche presidente della Football Association (FA), ha scritto una lettera alla squadra Alpha United Juniors di Bradford per esprimere il suo sostegno e la sua vicinanza ai calciatori vittime di insulti razzisti. A quanto pare, il Principe sta collaborando con la Federazione Calcio inglese per cercare di arginare la piaga del razzismo in ambito calcistico.

Un Paese nel quale c’è un serio problema di razzismo in quest’ambito è la Spagna. Lo afferma il tecnico del Real Madrid Carlo Ancelotti: sotto accusa gli insulti ricevuti dal suo attaccante Vinícius Júnior dalla tifoseria dell’Atletico Madrid, in ben due derby. Ecco le sue dichiarazioni in merito: “È un problema del calcio spagnolo. Faccio parte del calcio spagnolo e penso che sia un problema che dobbiamo risolvere. Perché sembra che Vinicius sia il colpevole, ma è vittima di qualcosa che non capisco”.

Ha rincarato la dose il giornalista Rafa Cabeleira, che in un vecchio editoriale su El Pais ha scritto: “Quello che è successo lo scorso fine settimana con Vinicius Jr. non è altro che l’ultima manifestazione di consenso, più o meno esplicito, che il calcio e la società spagnola nel suo insieme praticano con i segni del razzismo che, di volta in volta, si manifestano negli stadi, dagli spalti o sul campo stesso.

“Queste sono cose da calcio”, si dice per alleggerire il carico delle prove e alleviare le coscienze di chi è disposto a scendere a compromessi con un pizzico di razzismo a seconda della maglia indossata dall’infortunato”. Ecco, le “cose da calcio”: cose che dovrebbero essere il pallone, la porta, gli sfottò ironici tra tifosi. Non la violenza.

Invece la realtà è ben diversa: tra cori, insulti, striscioni nazi-fascisti e altre forme di violenza verbale, non è più possibile nascondere la testa sotto la sabbia. Bisogna affrontare il problema di petto e restituire al calcio l’antica nobiltà che gli appartiene. Non dimenticandosi mai che i giocatori sono i primi a dover dare l’esempio: anche e soprattutto ai propri tifosi.

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