Columbus Park, ai confini con la Chinatown di Manhattan, New York. In mezzo a gruppi di uomini anziani – per la totalità cinesi – che giocano a dama e a mahjong seduti ai tavolini di pietra o danno da mangiare ai piccioni chiacchierando in mandarino, svetta una statua di Sun Yat Sen. Sun, fondatore della Cina moderna la cui eredità è rivendicata sia dai comunisti, sia dai nazionalisti, immaginava il suo Paese come una repubblica democratica, ispirandosi proprio a quegli Stati Uniti che lo avevano ospitato nel suo esilio nel 1894. L’iscrizione sul piedistallo di pietra – in cinese e in inglese – è un monito a tutte le future generazioni: “tutti gli uomini sotto il cielo sono uguali”.
L’America non sembra aver imparato da Sun Yat Sen. A poche centinaia di metri da Columbus Park centinaia di attivisti si sono riuniti nel pomeriggio del 10 marzo scorso per protestare contro l’arresto e la detenzione senza formali accuse di Mahmoud Khalil, attivista palestinese che nel 2024, quando era studente alla Columbia, aveva svolto il ruolo di mediatore fra le richieste degli studenti accampati nel campus per protesta e gli organi della dirigenza universitaria, diventando così uno degli esponenti più in vista del movimento pro-palestina a New York.
L’arresto di Mahmoud Khalil
Mahmoud Khalil ha trent’anni ed è laureato alla Columbia University in affari internazionali. L’anno scorso, quando era ancora uno studente, ha partecipato al movimento contro il genocidio in corso in Palestina. All’epoca dei fatti Khalil non è mai stato accusato di aver commesso alcun reato. Ciononostante, alcuni giorni fa Mahmoud Khalil è stato prelevato da casa sua da agenti della US Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia statunitense parte del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale che si occupa di controllare le frontiere e l’immigrazione. Durante il raid in casa di Khalil gli agenti del governo avrebbero minacciato di arrestare anche la moglie dell’attivista, cittadina americana incinta di otto mesi.
Subito dopo l’arresto, Mahmoud Khalil sembrava scomparso nel nulla, in una maniera che a molti ha ricordato le tante storie di desaparecidos nella guerra sporca della CIA in America latina. Né la moglie di Khalil, né il suo avvocato, Amy Greer, hanno ricevuto notizie certe, ma solo risposte evasive da parte degli agenti governativi. In un primo momento gli uffici dell’ICE hanno comunicato alla moglie di Khalil che suo marito era detenuto in una struttura federale a Elizabeth, nel New Jersey, ma quando la donna ha provato a fargli visita le è stato impedito di entrare. Dopo alcuni giorni di angoscia, alla fine è stato comunicato alla famiglia che Mahmoud Khalil era stato spostato di oltre duemila chilometri, in un penitenziario della Louisiana.
Un arresto illegale?
I contorni dell’arresto e della detenzione di Mahmoud Khalil sono quantomeno sinistri. Infatti l’attivista, pur non essendo cittadino americano, è titolare di green card, il documento di residenza permanente che permette a chi lo riceve di risiedere a tempo indeterminato sul suolo degli Stati Uniti. La green card equipara i diritti del proprietario a quelli di un cittadino statunitense – a parte per il diritto di voto e la possibilità di essere eletto a cariche pubbliche – e in teoria è vista come il primo passo per la naturalizzazione, tanto che in una legge del 2020 l’USCIS (Ufficio statunitense per la cittadinanza e l’immigrazione) ha sancito l’inammissibilità per l’ottenimento della green card solo per chi faccia parte di un partito comunista oppure – formulazione quanto mai vaga – un partito “totalitario”. Subito dopo averlo arrestato, gli agenti hanno comunicato a Mahmoud Khalil che il suo visto studentesco era revocato. Quando Khalil ha risposto che lui non era su suolo americano con un visto, ma che era titolare di green card, gli agenti dell’ICE hanno fatto una telefonata, dopo la quale hanno affermato che anche quel documento sarebbe stato revocato, una procedura senza precedenti in casi dalle caratteristiche simili. Per di più, molti dubbi sono stati sollevati sulla legalità dell’intera operazione: quando l’avvocato di Khalil ha chiesto per telefono alle autorità di inviarle il mandato di cattura, gli agenti dell’ICE hanno semplicemente riagganciato, senza fornire spiegazioni.
Negli stessi giorni, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è intervenuto personalmente con una nota che ha chiarito i contorni politici dell’arresto di Khalil. Nella nota in questione si legge che «in seguito agli ordini esecutivi da me firmati in precedenza, l’ICE ha orgogliosamente arrestato e trattenuto Mahmoud Khalil, uno studente straniero radicale pro-Hamas nel campus della Columbia University. Questo è il primo arresto di molti altri che verranno». Khalil sarebbe dunque accusato di supportare il terrorismo, elemento non confermato da nessuna fonte, nemmeno dai rapporti della polizia. In più, risulta chiaro non solo che quello di cui è stato accusato Khalil è un reato d’opinione, ma che il suo arresto sarebbe solo il primo di una lunga serie, facendo presagire un’ondata di repressione che potrebbe abbattersi da un momento all’altro su tanti attivisti politici nelle università statunitensi, e che potrebbe non limitarsi agli attivisti del movimento pro-palestinese.
Crescono le proteste
L’arresto di Mahmoud Khalil ha dato il via ad un’ondata di sdegno e proteste in molti ambienti della società americana. Il 10 marzo scorso molti attivisti e membri della società civile di New York si sono dati appuntamento sotto gli uffici federali del Jacob K. Javits Building, sede newyorkese del Dipartimento di Sicurezza Nazionale, per manifestare in favore dell’immediato rilascio di Khalil. Fra i tanti cartelli portati dai manifestanti, molti con la foto di Mahmoud Khalil e un appello per la sua liberazione, spiccava una gigantografia di Donald Trump nei panni di Hitler – con tanto di baffetto e divisa nazista, ma con la spilla MAGA appuntata sul bavero al posto della svastica – nell’atto di fare il saluto nazista. Sotto, la scritta nome dell’umanità rifiutiamo di accettare un’America fascista». E se la piazza era chiaramente filo-palestinese, per molti la questione posta dall’arresto di Khalil è più ampia del movimento pro-pal. Come ha dichiarato un ex-alunna della Columbia, presente in manifestazione, «la questione è che un attivista politico potrebbe essere espulso solo per aver espresso le proprie idee, e questo si chiama reato d’opinione e non dovrebbe esistere». Alla manifestazione hanno partecipato anche alcuni gruppi di ebrei organizzati che non si riconoscono nelle azioni del governo di Israele. Dal palco un’attivista di religione ebraica ha affermato «noi ebrei rifiutiamo di vedere strumentalizzata la nostra religione per fini politici», mentre gli attivisti del Neturei Karta, movimento ebraico ortodosso che rifiuta il riconoscimento dello Stato di Israele, erano presenti in prima fila alla dimostrazione.
Ma non è solo la piazza ad essersi espressa per la liberazione di Khalil: anche molte personalità della sinistra statunitense – e non solo – sono intervenute sul tema. Bhaskar Sunkara, fondatore della rivista Jacobin, ha affermato che «provare a deportare un residente permanente su basi politiche è un shock per tutti». Sulla stessa linea d’onda anche Summer Lee, eletta alla Camera dei Rappresentanti per i Democratici con il supporto dei Democratic Socialist of America: «rapire un attivista e metterlo in galera nel bel mezzo della notte è un atto di sfacciato autoritarismo. Punire il dissenso revocando lo status legale di residenza permanente è un precedente pericoloso». Reazioni di sdegno ci sono state anche fra i membri della comunità ebraica americana, tradizionalmente schierata su posizioni a sostegno di Israele: se la Anti Defamation League, nota per le sue posizioni pro-Netanyahu, ha approvato l’operato dell’ICE, altre organizzazioni si sono schierate sul versante opposto. «Ogni ebreo che pensa che questo inizierà e si fermerà con alcuni attivisti palestinesi si sta prendendo in giro», ha infatti dichiarato lunedì mattina sui social media Amy Spitalnick, che gestisce il gruppo progressista Jewish Council for Public Affairs e si identifica come sionista progressista. «La nostra comunità non dovrebbe essere usata come scusa per mettere a repentaglio la democrazia e lo stato di diritto».
Anche le più alte cariche della Columbia University, che di recente si è vista tagliare dall’amministrazione Trump i fondi federali per un totale di circa 400 milioni di dollari, sono intervenute sull’argomento. Katrina Armstrong, presidente ad interim dell’università, ha dichiarato che «questo è un momento impegnativo per la nostra comunità. La libertà di espressione, l’indagine aperta, un dibattito rispettoso: questi sono i valori della Columbia, sono i valori dell’America, sono essenziali per una democrazia».
Le reazioni della giustizia americana
Il sistema della giustizia americano è stato scosso dalla vicenda, e si sono già avute le prime reazioni. «Non abbiamo mai visto nulla di simile da quando esercito la professione di avvocato», ha dichiarato Robyn Barnard, avvocato specializzato in immigrazione presso Human Rights First. «È davvero molto preoccupante vedere il governo degli Stati Uniti che decide di usare le sue limitate risorse in termini di applicazione delle leggi sull’immigrazione per colpire qualcuno che sta semplicemente esprimendo il proprio dissenso, ma che per il resto non sembra violare il Primo Emendamento». Una considerazione simile deve essere giunta anche alla mente del giudice federale che, sempre il 10 marzo, ha in teoria bloccato l’espulsione di Mahmoud Khalil, ingiungendo all’agenzia governativa di mantenere l’attivista su suolo americano mentre quello stesso giudice di Manhattan dovrebbe esaminare un’istanza relativa all’illegalità dell’arresto di Mahmoud Khalil. Questo per ora dovrebbe bloccare l’espulsione dell’attivista, anche se il senatore repubblicano Marco Rubio ha già invocato poteri speciali per permettere al presidente degli Stati Uniti di espellere direttamente chiunque partecipi ad attività definite “antiamericane”. Resta da vedere, dunque, come si risolverà questo braccio di ferro fra il governo statunitense e la magistratura, che sembra essere ad oggi uno dei pochi poteri dello Stato a poter contrastare l’azione autoritaria di Trump e del suo entourage.
Tutte le foto sono di Davide Longo
Davide Longo