Poche ore fa, alle nove di sera del 10 settembre – ora di New York, circa le tre di notte in Italia – si è svolto il dibattito televisivo fra Donald Trump e Kamala Harris, candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America rispettivamente per il Partito Repubblicano e per il Partito Democratico. I due candidati si sono affrontati in una schermaglia durata oltre un’ora e mezza, toccando i principali punti che terranno banco durante la campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo 5 novembre. Dalla guerra in Ucraina alla Palestina, dal diritto all’aborto al possesso di armi, dalla sanità all’immigrazione fino ai rapporti con la Cina, molto è stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica, anche se – come spesso accade nelle competizioni elettorali statunitensi – il confronto è stato innanzitutto e soprattutto un gioco di teatro fra le personalità dei due candidati.
Le regole del gioco
Il dibattito, della durata di circa novanta minuti, si è svolto a Philadelphia, città più popolosa della Pennsylvania, ed è stato ospitato nel National Constitution Center, sede di una fondazione no profit che si dedica alle ricerche attorno alla Costituzione degli Stati Uniti. La Pennsylvania è, oggi, uno degli stati più in bilico fra democratici e repubblicani, il che fa assumere al dibattito un valore tutto particolare. Ad amplificare la sensazione di essere di fronte a un momento cruciale della campagna elettorale contribuisce il fatto che il dibattito è stato organizzato da Abc, network che è risultato essere il secondo più credibile – dietro al Wall Street Journal – per gli spettatori statunitensi secondo uno studio del 2018. I moderatori, l’ex inviato di guerra David Muir e la giornalista afroamericana Linsey Davis, sono stati scelti per la forte credibilità giornalistica, in un contesto già teso vista la causa legale per diffamazione portata avanti da Donald Trump contro l’emittente e uno dei suoi volti più noti, George Stephanopoulos.
Anche in questo caso le regole sono state fin da subito molto chiare e decisamente ferree: nessuna presenza di pubblico in studio, poiché applausi e un tifo eccessivo avrebbero potuto disturbare candidati e moderatori; solo un foglio e una penna a disposizione, insieme a una bottiglietta d’acqua, e completa proibizione di appunti scritti in precedenza. Ogni candidato ha avuto due minuti per rispondere alle domande poste dagli intervistatori, altri due minuti per la replica e un ulteriore minuto per una eventuale controreplica. Mentre uno dei due candidati era impegnato nel discorso, il microfono dell’altro è stato silenziato: una regola, questa, osteggiata fino all’ultimo da Harris, che avrebbe voluto mantenere i microfoni accesi per tutta la durata del dibattito, forse sperando in un passo falso dell’esuberante Trump. Alla fine del dibattito, ognuno dei candidati – prima Harris, per ultimo Trump – hanno avuto la possibilità di rivolgere agli elettori un messaggio elettorale senza interruzioni, domande o repliche.
Kamala Harris risolleva le sorti dei democratici
La prima impressione che viene in mente a chi assiste al confronto televisivo è una distanza siderale dal dibattito che aveva visto opposti Joe Biden e Donald Trump lo scorso giugno sugli schermi della CNN. Kamala Harris, che si muove sul palco perfettamente a proprio agio, dimostra da un lato di avere un atteggiamento preciso e professionale, ma mai freddo o lontano dallo spettatore, e dall’altro parla puntando lo sguardo dritto in camera, rivolgendosi direttamente al pubblico e riuscendo a catalizzare l’attenzione sulle proprie maniere prima ancora che sulle proprie posizioni politiche. La candidata democratica è riuscita a proporsi come alternativa credibile ai repubblicani innanzitutto da un punto di vista dell’atteggiamento, e questa, dopo la pessima performance di Joe Biden a giugno, che ha portato al suo ritiro dalla corsa elettorale, è parsa agli spettatori come una vera e propria ventata di aria fresca. Pur non risparmiando dure critiche al candidato repubblicano, Kamala Harris è riuscita a ignorare l’avversario nei momenti decisivi, dando l’impressione di star parlando non soltanto ai propri elettori ma a tutti gli abitanti del Paese.
Molto diverso, invece, il comportamento di Donald Trump, che ha scelto di continuare a giocare le proprie carte nella maniera che gli è più congeniale, quella dei colpi di teatro. Innanzitutto, il tycoon ha scelto di muovere sistematicamente all’attacco di Harris, parlando molto poco in camera e rivolgendosi invece spesso alla candidata democratica. Nel corso dei novanta minuti di dibattito, Donald Trump è riuscito ad accusare Kamala Harris di “essere Joe Biden” e di “essere figlia di un economista marxista, e di essere marxista lei stessa”, due uscite che sono state accolte dall’avversaria con una risata e una risposta rapida ma efficace. In generale, mentre la Harris non è parsa mai in difficoltà di fronte alle provocazioni di Trump, quest’ultimo ha avuto qualche problema a gestire il dibattito su alcuni punti – come, ad esempio, la questione dell’appartenenza etnica di Harris, da Trump messa in discussione alcune settimane fa.
Due diverse visioni dell’America
Nel discorso finale rivolto agli elettori Kamala Harris ha precisato che, in queste elezioni, “siamo di fronte a diverse visioni del nostro Paese: una rivolta al futuro, una che pensa al passato”. Questo è sembrato senz’altro vero in materia di politica interna, a partire dal fatto che su ogni punto che è stato toccato Kamala Harris ha avuto la capacità di sintetizzare in poche parole le politiche che intende mettere in atto una volta eletta presidente, mentre Trump, sulla difensiva, si è spesso limitato ad attacchi personali contro l’avversaria e alla rivendicazione tramite slogan dei veri o presunti meriti della propria precedente amministrazione.
Sul tema dell’immigrazione si è svolto un dibattito piuttosto acceso, con Donald Trump che ha parlato di “intere città nelle mani degli immigrati senza documenti”, citando la città di Springfield, in Ohio, dove, a suo dire, “gli immigrati sono arrivati a mangiare i cani e i gatti della popolazione statunitense”. Kamala Harris è apparsa abbastanza divertita dalla fake news, subito smentita dal moderatore del dibattito che ha citato in tal senso il discorso del sindaco della città in questione. La risposta di Trump è paradigmatica della maniera in cui il tycoon affronta i dibattiti politici: “c’erano persone alla televisione che raccontavano queste storie, e io le riporto”.
Al netto di questi aspetti più coloriti, che mettono in luce la capacità di Trump di veicolare notizie false a supporto delle proprie posizioni apertamente xenofobe, il candidato repubblicano ha accusato Kamala Harris di aver fatto troppo poco e troppo tardi per contenere l’immigrazione illegale. A fronte della linea di rafforzamento dei controlli alle frontiere messa in atto da Joe Biden e supportata dalla Harris, Trump ha proposto sul tema un piano di deportazione sistematica degli immigrati illegali negli Stati Uniti che, si stima, siano oltre undici milioni di persone. Trump ha chiuso il proprio discorso con una frase che sembra già pronta per essere trasformata in uno slogan elettorale: “bring our country back” (riprendiamoci il nostro Paese). Kamala Harris, per parte sua, ha sottolineato che a suo parere bisogna perseguire le organizzazioni criminali responsabili del traffico di esseri umani – ma anche del contrabbando di droga e armi – più che i migranti in sé.
Anche a proposito del diritto all’aborto le posizioni espresse dai candidati si pongono agli antipodi dello spettro politico. Donald Trump ha innanzitutto accusato la Harris di difendere l’aborto al nono mese o addirittura, come avrebbe fatto l’ex governatore del West Virginia Ralph Northam, l’omicidio di neonati: anche in questo caso si tratta di una notizia falsa, risalente a cinque anni fa e ampiamente smentita da autorevoli fonti giornalistiche. Il candidato repubblicano ha poi ribadito che le posizioni del presidente in merito non sono rilevanti perché la decisione di vietare o meno l’aborto va lasciata ai singoli Stati: questa, che in apparenza sembra una misura democratica, in realtà nasconde la volontà di non varare una legge federale in materia.
Interrogato riguardo le posizioni del proprio vicepresidente J.D. Vance, che non ammette alcuna eccezione al divieto di aborto – nemmeno in caso di incesto o violenza sessuale – Donald Trump ha ribadito la posizione della scelta ai singoli Stati, preferendo non rispondere. Kamala Harris, d’altro canto, si è schierata nettamente a favore del “diritto delle donne a scegliere riguardo al proprio corpo” con una legge che tuteli questo diritto a livello federale – provvedimento che negli USA, ad oggi, de facto non esiste.
Anche sui temi economici, sociali e ambientali la visione dei due candidati non potrebbe essere più diversa. In materia economica Kamala Harris ha sostenuto un piano di sostegno alla piccola impresa, mentre Donald Trump si è presentato nella consueta veste del miliardario self-made-man, che ha costruito la propria fortuna partendo dal nulla. Dal punto di vista delle politiche sociali il dibattito si è acceso soprattutto attorno alla questione della sanità: mentre Kamala Harris propone di rafforzare l’Affordable Care Act, una legge che impedisce alle assicurazioni di rifiutare pazienti – come i diabetici – le cui cure risultano piuttosto costose, Donald Trump ha dovuto ammettere di fronte alle incalzanti domande dell’intervistatore di non disporre di un piano in merito, tentando di risolvere la situazione di palese imbarazzo con un “ci stiamo lavorando, avrete il mio piano nelle prossime settimane”. Per quanto riguarda le politiche ambientali, mentre Trump sembra concentrato sulle trivellazioni del suolo in cerca di gas naturale e petrolio – un settore centrale in Pennsylvania – Kamala Harris ha specificato che, pur non essendo contraria del tutto al fenomeno del fracking, intenderebbe puntare da presidente su una diversificazione delle fonti energetiche con particolare interesse alle rinnovabili.
Guerra, pace e diplomazia: il ruolo degli USA nel Mondo
Anche se può sembrare per certi versi paradossale, soprattutto ad un osservatore poco attento delle questioni di politica statunitense, a dispetto delle apparenze i punti sui quali Harris e Trump sembrano meno lontani sono proprio quelli di politica estera. Certo, le ricette proposte, come vedremo, sono parzialmente diverse, ma entrambi sembrano fermi su un punto cruciale dei propri programmi: la valorizzazione del ruolo degli Stati Uniti d’America come arbitro della politica internazionale, percepita non come un insieme di Stati che concorrono a una stabilità collettiva attraverso l’equilibrio diplomatico, ma come un “giardino di casa” nel quale gli Stati Uniti intervengono per dirimere le controversie e far cessare o alimentare i conflitti. In particolare, questo atteggiamento si è notato a proposito del rapporto con la Cina: se Trump ha accusato i democratici di essere troppo morbidi nei confronti della Repubblica Popolare, la stessa Kamala Harris non ha nascosto di vedere il rapporto con il colosso asiatico nei termini di una competizione aggressiva, che deve essere vinta “investendo nei settori tecnologici statunitensi”.
Anche nelle altre aree del mondo sia Trump che la Harris si sono mostrati a favore di un atteggiamento interventista, anche se le soluzioni proposte sono state in parte diverse. Per quanto riguarda la guerra in Ucraina Harris ha ribadito la centralità del sostegno militare al governo di Zelensky, precisando che a suo parere l’obiettivo di Putin sarebbe non limitarsi all’Ucraina ma avere mire sul resto del continente, ossia sedere “a Kiev, con gli occhi puntati sul resto d’Europa”. Donald Trump, al contrario, si è detto fautore di una soluzione diplomatica del conflitto che dovrebbe passare attraverso la sua personale mediazione, visti i buoni rapporti vantati dal tycoon sia con il presidente russo che con quello ucraino.
Anche sulla questione palestinese le posizioni sono piuttosto diverse: mentre il sostegno di Trump a Israele pare incondizionato, viste anche le parole aggressive riservate dal candidato repubblicano nei confronti di Hamas e Hezbollah, Kamala Harris ha proposto una posizione più articolata. Pur ribadendo più volte il sostegno ad Israele e riconoscendo il “diritto a difendersi” di questo Stato, la Harris ha sottolineato le sofferenze del popolo palestinese prospettando un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e caldeggiando la soluzione dei due Stati. Nessuno dei due candidati, sul tema, ha parlato esplicitamente di atti di genocidio, nonostante questo termine sia entrato nel lessico delle Nazioni Unite proprio in relazione ai massacri in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Una partita più che mai aperta
Questo primo dibattito tra Donald Trump e Kamala Harris, dunque, è arrivato a coronare un periodo di poche settimane che ha in qualche modo ridisegnato gli equilibri di questa campagna elettorale. Se a fine giugno i democratici sembravano senza speranza di fronte all’avanzata di Donald Trump, il passo indietro di Joe Biden e l’entusiasmo attorno alla candidatura di Kamala Harris e del suo vice, il governatore del Minnesota Tim Walz, hanno riequilibrato i rapporti. Negli ultimi sondaggi la distanza tra i due candidati è davvero minima, e questo confronto potrebbe aver permesso a Harris di balzare in testa ai sondaggi: ora anche la minima variazione delle percentuali potrebbe fare la differenza fra la vittoria e la sconfitta dell’uno o dell’altra candidata.
Dal dibattito sono emerse inoltre due visioni politiche fortemente polarizzate, soprattutto per quanto riguarda la politica interna, ma anche il modo stesso di fare politica. Il personalismo di Donald Trump non si scontra più con la debolezza di Biden, ma con una candidata che risponde colpo su colpo e non si lascia intimidire dagli attacchi personali. Come spesso accade nelle elezioni statunitensi, molto è teatralità, buona parte della competizione è giocata sulle capacità dei singoli candidati di catturare l’attenzione dell’opinione pubblica. Tuttavia, con un ticket democratico più progressista dei precedenti, la partita per queste elezioni presidenziali è di nuovo aperta, e Kamala Harris e Tim Walz potrebbero anche vincerla.
Davide Longo