USA: la nuova Guerra Fredda di Donald Trump

USA: la nuova Guerra Fredda di Donald Trump

«L’America reclamerà il posto che le spetta come la nazione più grande, più potente e più rispettata della Terra, ispirando il timore e l’ammirazione del mondo intero. Tra poco, cambieremo il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America». Con queste parole, che suonano sinistre a chi possiede una memoria storica, il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha tracciato nel giorno del suo insediamento i contorni del nuovo, aggressivo indirizzo intrapreso dalla politica estera statunitense. Pochi giorni prima, durante una turbolenta conferenza stampa tenuta a Mar-a-lago, la residenza principesca di West Palm Beach in cui risiede, Trump ha indicato la Groenlandia e il canale di Panama, senza risparmiare anche riferimenti al Canada e Golfo del Messico, come territori di interesse per la sicurezza nazionale degli USA. «Potrebbe essere necessario fare qualcosa. Il Canale di Panama è vitale per il nostro Paese», ha dichiarato il tycoon, affermando anche che «abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza nazionale. Ne abbiamo bisogno per la nostra sicurezza economica. E il Canale di Panama è stato costruito per le nostre forze armate».

Le prime reazioni

Subito si sono scatenate le reazioni, innanzitutto da parte del mondo politico delle nazioni coinvolte. Per quanto riguarda la Groenlandia, territorio dipendente dalla Danimarca ma dotato di una certa autonomia, è intervenuto innanzitutto Mute Bourup Egede, il primo ministro dell’isola: «La Groenlandia è nostra. Non siamo in vendita e non lo saremo mai. Non dobbiamo perdere la nostra lunga lotta per la libertà». Alcuni giorni dopo si è espressa anche Mette Fredriksen, la premier socialdemocratica danese, che ha dichiarato di sentirsi «un alleato molto stretto degli Stati Uniti, penso che ci sia motivo di essere felici del crescente interesse americano. Ma dovrà essere fatto in un modo che sia rispettoso del popolo groenlandese. La Groenlandia appartiene ai groenlandesi. Il mio punto di vista e quello del governo sono molto chiari: il futuro della Groenlandia sarà definito in Groenlandia». Una posizione molto moderata, che riflette il delicato equilibrio fra poteri locali e madrepatria che accompagna la crescita delle autonomie in Groenlandia, e che Trump ha messo in crisi come se fosse un elefante in una cristalleria.

Molto più piccati, invece, sono stati i commenti dei politici panamensi e canadesi. Justin Trudeau, primo ministro del Canada, ha liquidato l’invito del tycoon all’annessione del Canada come cinquantunesimo Stato dell’Unione dicendo che «ha più possibilità di sopravvivere una palla di neve all’inferno, piuttosto che il Canada diventi parte degli Stati Uniti». A lui ha fatto eco il leader dei conservatori canadesi, Pierre Poilievre: «Il Canada non sarà mai il cinquantunesimo Stato. Punto». Molto simile la posizione ufficiale del socialdemocratico NDP, il quarto partito per numero di parlamentari e principale forza della sinistra canadese, espressa dal suo leader Jagmeet Singh: «nessun canadese vuole unirsi a voi. Siamo canadesi orgogliosi. Orgogliosi del modo in cui ci prendiamo cura gli uni degli altri e difendiamo la nostra nazione. I vostri attacchi danneggeranno i posti di lavoro su entrambi i lati del confine. Se venite a prendere i posti di lavoro dei canadesi, ne pagherete il prezzo». Molto netta anche la presa di posizione di José Raul Mulino, presidente di Panama: «Come presidente, voglio esprimere chiaramente che ogni metro quadrato del Canale di Panama e della sua zona adiacente appartiene a Panama, e continuerà a farlo. La sovranità e l’indipendenza del nostro Paese non sono negoziabili».

La centralità della Groenlandia

Le affermazioni di Trump sul Canada, ad oggi, sembrano più che altro una posizione provocatoria legata alle tensioni a livello economico che si stanno instaurando fra i due paesi: da un lato, Donald Trump ha dichiarato di voler imporre dei dazi del 25% sulle importazioni di merci canadesi, così da favorire i prodotti statunitensi, il che creerebbe non pochi problemi all’economia del Canada, il cui export verso gli USA ha da solo il valore di 440 miliardi di dollari. Stando alle ultime indiscrezioni, il governo canadese avrebbe già condotto una serie di riunioni per stilare una lista di prodotti statunitensi su cui imporre a sua volta dei dazi, se il piano del tycoon dovesse andare in porto. Tuttavia, al netto di questa guerra commerciale fra i due Paesi, altre azioni di stampo differente da parte degli Stati Uniti d’America non sembrano oggi molto probabili.

Diverso, invece, il discorso sulla Groenlandia. Quella che è la più grande sola del mondo, dopo essere stata per quasi 600 anni una colonia della Danimarca, negli ultimi decenni ha intrapreso una lenta e faticosa strada verso l’indipendenza, fino ad ottenere nel 2009 – a seguito di un referendum tenutosi l’anno prima – l’autogoverno e la gestione delle proprie risorse naturali. Entro la fine del 2025, inoltre, la Groenlandia dovrebbe tenere un secondo referendum per decidere l’indipendenza dell’isola, un progetto sostenuto anche dalla Danimarca, che ad oggi contribuisce al prodotto interno lordo della Groenlandia per il 30%, con sovvenzioni annue pari a 3,4 miliardi di corone. Alla luce di questo completamento dell’indipendenza della regione va visto il rinnovato interesse di Donald Trump nell’area, che nel 2019 già aveva offerto alla Danimarca di acquistare l’isola in nome degli Stati Uniti. Del resto, l’idea di una sovranità statunitense sulla zona non è affatto nuova nella politica a stelle e strisce: Washington provò a comprare la Groenlandia per la prima volta nel 1867, sull’onda lunga del successo del Louisiana Purchase, e ancora nel 1946 il governo USA offrì 100 milioni di dollari alla Danimarca per annettersi l’isola.

Ma perché Donald Trump è così interessato ad espandere l’influenza statunitense nei territori dell’artico? Come riporta Melody Brown Burkins, scienziata politica del Dartmouth College esperta in materia, la Groenlandia «si trova in una posizione molto strategica nell’Artico per molti interessi diversi». Il primo è senz’altro militare. La Groenlandia già ospita una base statunitense – nell’ambito della partecipazione della Danimarca alla NATO – e rafforzare la presenza dell’esercito nella zona va visto per gli Stati Uniti nell’ottica dell’inasprimento delle tensioni con la Russia: l’isola è infatti un importante avamposto nella regione artica, dove i russi hanno enormi interessi. La reazione del portavoce del Cremlino Dimitry Peskov alle parole di Trump sembra confermare questo schema: «L’Artico è una regione che rientra nei nostri interessi strategici e nazionali. Siamo e rimarremo presenti nel territorio artico», ha affermato Peskov, «siamo interessati a mantenere una atmosfera di pace e stabilità e siamo pronti a cooperare con tutti i Paesi per garantire la pace e la stabilità ovunque, incluso nell’Artico». In più, lo scioglimento dei ghiacci sta aprendo nuove rotte marittime nel Mar Glaciale Artico, che permetterebbero di risparmiare fino al 40% del tempo impiegato dalle navi a percorrere le rotte attraverso il Canale di Suez. Tuttavia, anche se il traffico marittimo nell’area è aumentato del 34% negli ultimi dieci anni, non tutti gli esperti pensano che queste rotte siano effettivamente praticabili su larga scala. «Penso che questa idea massiccia di mandare tutte le navi su queste nuove rotte per risparmiare sia un po’ strana», afferma Burkins, esperta del Dartmouth College, «soprattutto se si considera che le condizioni degli oceani polari sono e continueranno a essere difficili. Si può dire che ci sarà meno ghiaccio, ma ce ne sarà molto di più che andrà alla deriva per perforare le navi». Le condizioni del territorio pongono in dubbio anche il terzo elemento di interesse che gli Stati Uniti potrebbero avere nell’area: lo Groenlandia è infatti una zona ricca di risorse minerarie come oro, diamanti, piombo e terre rare, peraltro finora poco sfruttate dall’economia locale, basata soprattutto su pesca e turismo. Tuttavia, buona parte di questi materiali si possono trovare sì nelle zone costiere libere dai ghiacci, ma a una tale profondità per cui servirebbero degli imponenti investimenti di denaro e risorse per sviluppare le infrastrutture utili a estrarli. Insomma, gli Stati Uniti potrebbero certo avvantaggiarsi dall’estrazione di queste risorse minerarie, smarcandosi così dalla dipendenza dalla Cina nel settore, ma dovrebbero prima spendere per sviluppare infrastrutture che, ad oggi, non esistono. Dunque, anche se l’investimento sulla Groenlandia da parte di Donald Trump ha peraltro assunto toni dinastici con la visita di qualche giorno fa di Trump Junior nell’isola – formalmente soltanto per ragioni turistiche, ma con chiari intenti propagandistici – l’interesse statunitense nell’area potrebbe avere più valore ideologico che non reali risvolti a livello economico.

Trump fra Dottrina Monroe e Guerra Fredda

L’orientamento ideologico di Donald Trump, che dal 20 gennaio è a capo di una delle principali superpotenze atomiche del pianeta, è quello della Guerra Fredda e della divisione del mondo in blocchi. Questa, perlomeno, è la risposta che propone Rob Huebert, esperto di politica artica e professore associato all’Università di Calgary, Canada. «Questa è la resurrezione del Destino Manifesto», ha detto Huebert, facendo riferimento a quella idea che già nell’Ottocento guidò il governo statunitense prima allo sterminio dei nativi americani, e poi all’espansione della sfera di influenza statunitense in tutto il continente americano, e per estensione nel mondo. Una ideologia che prese prima la forma della Dottrina Monroe, elaborata dal presidente statunitense James Monroe nel 1923 e che prevede la supremazia degli USA in tutto il continente americano, e che poi si intrecciò con la lotta contro il comunismo internazionale, che portò gli Stati Uniti a sostenere attivamente numerosi colpi di stato militari in America latina (non ultimo, il golpe di Pinochet in Cile nel 1973). Solo questo orizzonte ideologico può spiegare, secondo Huebert, la posizione di Trump sulla Groenlandia. In quell’area gli americani avrebbero «già tutto ciò che potrebbero desiderare, tranne il diritto di issare una bandiera», ha detto Huebert, facendo riferimento anche agli accordi che gli USA hanno stipulato con la Groenlandia, per la quale gestiscono anche una parte della difesa. Secondo Huebert, Trump tende a pensare alle relazioni estere in termini di “sfere di influenza”, ovvero a dividere il mondo tra grandi potenze come la Russia e gli Stati Uniti, che sono poi libere di far valere il loro peso economico e militare. «In pratica, non solo (Trump, nda) minaccia la nostra sovranità, ma minaccia anche di riportarci a un ordine mondiale che è la ricetta per un disastro internazionale», ha concluso Huebert, che auspica una risoluzione internazionale che condanni radicalmente le parole di Donald Trump.

 

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