USA: libertà di stampa sotto assedio

USA: libertà di stampa sotto assedio

All’incontro/scontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky di venerdì, sfociato in un vero disastro diplomatico, secondo diverse fonti giornalistiche statunitense un giornalista della Tass, l’agenzia di stampa di stato russa, sarebbe riuscito ad accedere allo Studio Ovale per assistere all’incontro. Il giornalista sarebbe stato allontanato dalla sicurezza della Casa Bianca, e fonti interne all’entourage del presidente statunitense hanno escluso che membri della Tass fossero sulla lista dei giornalisti accreditati all’evento. La presenza di un giornalista della Tass ha contrastato con la pesante assenza dei reporter di Reuters e Associated Press, due colossi dell’informazione, esclusi dall’evento per volere di Trump: solo l’ultimo atto, questo, di una campagna del tycoon volta a screditare la stampa indipendente – e non allineata ai repubblicani – all’interno di un più ampio scontro sulla libertà di informazione che sta dividendo il Paese.

Del resto, non si può dire che non fossimo stati avvertiti. «Quando si ha un presidente che incita ogni giorno l’opinione pubblica americana contro la stampa, aumentano le probabilità che accada qualcosa di terribile». Con queste parole Martin Baron, ex direttore del Boston Globe durante l’inchiesta sugli abusi sessuali contro i minori perpetrati da decine di preti cattolici nella diocesi di Boston, ha aperto il proprio intervento al McClatchy Symposium tenuto all’Università di Stanford lo scorso 5 febbraio. Parole queste, scaturite dalle prime azioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, il quale nei primi trenta giorni di governo si è già reso responsabile di attacchi alla stampa quasi quotidiani. Questa paura di un brusco declino della libertà di parola nel Paese è condivisa da molte associazioni che operano in questo campo. Ad esempio, Reporter senza Frontiere, associazione senza scopo di lucro nata nel 1985 in Francia, ha pubblicato un documento in cui pone l’accento sulla pericolosità di un secondo mandato Trump per la libera informazione: «in campagna elettorale e durante la sua precedente amministrazione, il Presidente eletto Donald Trump ha spesso usato un linguaggio violento e minacce contro i media. La sua elezione a un secondo mandato segna un momento pericoloso per il giornalismo americano e la libertà di stampa globale». Soltanto fra il 1 settembre e il 21 ottobre 2024 Trump ha attaccato la stampa in 108 occasioni (più di due volte al giorno), arrivando perfino ad affermare «non mi importerebbe se qualcuno sparasse a un giornalista».

 

L’ondata di arresti di giornalisti nel 2024

In realtà, i problemi per la libera stampa negli USA non cominciano con il secondo mandato di Donald Trump. A dimostrarlo abbiamo un rapporto di U.S. Press Freedom Tracker, un progetto messo in campo a partire dal 2017 da Freedom of the Press Foundation, associazione che si occupa di monitorare gli attacchi alla libertà di espressione negli Stati Uniti. Secondo questo rapporto, solo nel 2024 ci sono stati 229 episodi di violenze, arresti o altri eventi riconducibili all’interruzione dell’operato di giornalisti negli Stati Uniti. Di questi 229, 80 sono state vere e proprie aggressioni fisiche, 30 sono stati i casi di danneggiamento di apparecchiature, mentre 49 sono stati gli arresti e le accuse di rilevanza penale. Si tratta di circa un caso ogni 32 ore, un ritmo superato solo nel 2020, ultimo anno della prima amministrazione Trump, quando il numero totale di violazioni dei diritti dei giornalisti negli USA si attestò a 1023, di cui 146 arresti e ben 640 aggressioni fisiche.

Il genocidio messo in atto da Israele nei confronti della popolazione palestinese nella striscia di Gaza ha un ruolo centrale nell’analisi di questi numeri. Infatti, nel solo 2024 su 49 arresti ben 43 sono avvenuti durante le proteste in favore dei palestinesi avvenute soprattutto in numerose università statunitensi. Allo stesso modo, 59 aggressioni fisiche a giornalisti (su un totale di 80) sono avvenute durante quelle manifestazioni, la maggior parte attuate dalle forze di polizia, che in decine di casi hanno agito con un uso eccessivo e ingiustificato della forza contro gli addetti stampa presenti sul campo. È il caso, ad esempio, di Tyler Church, studente di giornalismo alla University of Minnesota di Minneapolis e redattore del Minnesota Daily, uno dei giornali universitari più diffusi nell’area. Lo scorso 21 ottobre Church stava coprendo per il suo giornale le proteste degli studenti che avevano occupato alcuni locali dell’università per rivendicare un cessate il fuoco immediato a Gaza. Dopo alcune ore, i manifestanti avevano permesso a Tyler Church di entrare nello stabile e di documentare la protesta degli studenti, che si stava svolgendo in modo del tutto pacifico. Tyler Church è entrato indossando una pettorina con ben visibile la scritta PRESS sul petto, ma questo non ha fermato le forze di polizia del dipartimento universitario che poco dopo hanno fatto irruzione nell’edificio. «La polizia ha sfondato la porta, con le armi spianate, e ci ha trascinato a terra», ha raccontato Church. «Durante l’azione ho detto più volte: “Sono dei media, sono della stampa, sono del Minnesota Daily”. Mi hanno detto che non importava e che dovevo mettermi a terra. Mi hanno ammanettato e messo insieme a tutti gli altri detenuti». La polizia ha anche confiscato il computer e lo zaino del giornalista, detenuto poi per oltre tre ore insieme a due colleghi dello stesso giornale e a un reporter del Minnesota Star Tribune. Il giornalista è stato infine rilasciato e il suo caso ha creato una generale protesta di studenti e professori del dipartimento di giornalismo dell’università locale. Infine, il materiale requisito e perquisito dalla polizia è stato restituito – intatto – al proprietario solo dopo 24 ore dall’arresto.

La tecnica del catch-and-release per mettere sotto pressione i giornalisti

Quasi il 50% degli arresti di giornalisti di quest’anno è avvenuto per mano del Dipartimento di Polizia di New York (NYPD), un dipartimento molto noto per l’utilizzo della violenza nella repressione delle manifestazioni e per l’impiego di tattiche di catch-and-release (cattura e rilascio), tattiche che sono particolarmente preoccupanti per i sostenitori della libertà di stampa.

Due fotoreporter, Josh Pacheco e Olga Fedorova, sono stati arrestati quattro volte quest’anno sia a New York che a Chicago mentre fotografavano le proteste pro-palestina. Entrambi sono stati aggrediti e arrestati e le loro attrezzature sono state danneggiate mentre documentavano lo sgombero da parte della polizia di un accampamento di studenti al Fashion Institute of Technology di Manhattan. Olga Fedorova ha spiegato tutta la dinamica dei fatti. «Mentre mi avvicinavo alla recinzione e davo le spalle ai poliziotti – sul mio zaino ho una toppa con scritto ‘PRESS’ – uno di loro mi ha afferrato e mi ha tirato per i capelli all’indietro. Mi sono identificata come giornalista e gli ho mostrato il mio tesserino da giornalista, ma mi hanno ammanettato e poi hanno ammanettato Jon Farina», un altro giornalista che era sul posto per documentare le proteste. La Fedorova ha detto che sia lei che Farina si sono identificati più volte come giornalisti, ma sono stati trattenuti in manette. Gli agenti hanno chiamato l’Ufficio legale del dipartimento, che ha consigliato loro di rilasciare i giornalisti senza accuse. «C’è uno schema di quella che sembra essere ignoranza o mancanza di comprensione di ciò che fa la stampa o dei diritti della stampa», ha detto Fedorova. «A volte è come se alcuni agenti non avessero mai visto un badge per la stampa o non fossero stati istruiti su cosa sia».

Il giorno successivo è stato comunicato ai due giornalisti che i loro arresti erano stati annullati. Questo è un perfetto esempio della tecnica del catch-and-release, in cui la polizia allontana i giornalisti da un luogo di rilevanza cruciale per il tempo necessario a evitare che i reporter documentino quanto sta accadendo. «Se da un lato siamo lieti che la polizia di New York abbia fatto prevalere il buon senso e non abbia accusato i due fotografi di alcun reato, dall’altro siamo molto preoccupati per il fatto che stiano perfezionando il catch-and-release come una forma d’arte», ha infatti dichiarato Mickey Osterreicher, consigliere generale della National Press Photographers Association. «Il fatto che abbiano tolto dalla strada due fotoreporter, impedendo loro di realizzare altre immagini o di trasmettere quelle che già avevano su una questione di estrema rilevanza pubblica, è molto inquietante».

Anche la Freedom of the Press Foundation ha descritto questa tattica del catch-and-release come un metodo per allontanare i giornalisti dai luoghi in cui potrebbero documentare violazioni dei diritti dei manifestanti, o nei quali semplicemente si trova la storia da raccontare. Come si legge in una dichiarazione dell’associazione, si tratta di una «tattica di cattura e rilascio che allontana i giornalisti dalle notizie finché la storia non è finita. In questo modo a partire dal 7 febbraio 2024 hanno anche aggredito almeno otto reporter, spesso rompendo le loro attrezzature. E hanno disperso o impedito in altro modo a innumerevoli altri di coprire le proteste. Alcuni sono stati colpiti da sostanze chimiche irritanti insieme ai manifestanti». La polizia di New York si è resa anche protagonista, circa un anno fa, del confinamento di decine di studenti di giornalismo della Columbia University dentro la Pulitzer Hall, sede del corso. Nessuno di quegli studenti era sul luogo come giornalista, e tuttavia la polizia li ha confinati nell’edificio minacciando di arrestarli se fossero usciti a documentare le proteste. Considerato che il dipartimento di polizia di New York non aveva permesso alla stampa di essere presente quel giorno nel campus, gli studenti erano gli unici che avrebbero potuto documentare quando stava succedendo in uno degli edifici vicini, occupato dai dimostranti e sgomberato in quelle ore dalle forze di polizia. «Nessuno era presente per documentare ciò che stava accadendo, quindi mi sembra che quella notte la libertà di stampa sia stata davvero fortemente limitata» ha detto l’italiana Francesca Maria Lorenzini, presente durante i fatti alla Columbia e oggi giornalista del quotidiano giordano in lingua inglese The Jordan Times.

 

La presidenza Trump segna un cambio di passo

A fronte di questi dati – e di queste storie – possiamo dire che da alcuni anni gli Stati Uniti stanno facendo fronte a una crisi dei livelli di libertà di stampa presenti nel Paese, una crisi di cui lo spostamento a destra del Partito Repubblicano è più che altro una componente, più che una causa. Tuttavia, sembra di poter dire che il nuovo mandato di Donald Trump segnerà un cambio di passo in quella che è attualmente la repressione della libertà di parola negli Stati Uniti. Se è vero che il clima di ostilità nei confronti della stampa – soprattutto quella indipendente – dura almeno dal 2017, esso viene costantemente peggiorato dalle dichiarazioni e dalle azioni del nuovo presidente e di tutto il suo entourage. In particolare, a partire dal 20 gennaio sono stati due gli avvenimenti che più di tutti hanno messo in chiaro quali saranno i rapporti della nuova amministrazione americana con la stampa.

Innanzitutto, a partire dal 21 gennaio Donald Trump ha incaricato Brendan Carr, capo della Commissione Federale per le Comunicazioni (FCC), di aprire un’indagine federale a carico di CBS, NBC, ABC, PBS e NPR, fra i maggiori network d’informazione statunitensi, per aver avuto delle posizioni pregiudizialmente contrarie al candidato repubblicano durante la campagna elettorale. Da questa indagine è stata esclusa ovviamente Fox News, emittente considerata molto vicina al tycoon e alle posizioni della destra americana. Lo scorso 14 febbraio, come se non bastasse, la Casa Bianca ha deciso di impedire l’accesso allo Studio Ovale e agli ambienti della Air Force One a qualunque giornalista di Associated Press, una delle agenzie giornalistiche più importanti al mondo. La colpa di Associated Press sarebbe quella di non aver utilizzato il termine “Golfo d’America” per identificare il “Golfo del Messico”, dopo il cambio di terminologia operato dall’amministrazione Trump alcuni giorni fa. Questa decisione, che di recente ha coinvolto anche l’agenzia Reuters e che potrebbe sembrare marginale, è in realtà una prova di forza in cui il Presidente degli Stati Uniti dimostra di poter escludere a proprio piacimento interi gruppi giornalistici dall’ottenere informazioni ufficiali nelle conferenze stampa del governo. Come ha dichiarato un rappresentante della White House Correspondents Association, che rappresenta decine di giornalisti che coprono quotidianamente la Casa Bianca, «La decisione della Casa Bianca di impedire ai giornalisti dell’Associated Press di partecipare alla conferenza stampa di oggi con il Presidente Trump e il Primo Ministro indiano Modi è oltraggiosa e rappresenta un’escalation profondamente deludente di una situazione già inaccettabile. Voglio essere chiaro: la Casa Bianca sta cercando di limitare le libertà di stampa sancite dalla nostra Costituzione e ha ammesso pubblicamente che sta limitando l’accesso agli eventi per punire un organo di informazione per non aver sostenuto il linguaggio preferito dal governo».

 

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