Per 63 organizzazioni internazionali, firmatarie di un comunicato congiunto diffuso lo scorso 4 ottobre, la Tunisia non è un luogo sicuro per lo sbarco e il soccorso delle persone in mare. Lo affermano alla luce delle “dilaganti violazioni di diritti umani” e della “repressione del dissenso” nel Paese, che manca anche di un sistema di asilo per valutare le domande di protezione internazionale delle persone migranti in arrivo. Il comunicato segue la nascita dell’area SAR (l’area di ricerca e soccorso in mare) tunisina dello scorso giugno, fortemente voluta dal Governo Meloni. Nella zona attorno alle coste tunisine dovranno intervenire le pattuglie della guardia costiera del Paese, con lo scopo – almeno dichiarato – di salvare eventuali naufraghi in mare. Quello che già in parte avviene oggi, ma che con la SAR diventerà codificato e più agevole, inoltre Tunisi riceverà ulteriori mezzi e finanziamenti dall’Unione europea per operare in mare.
«Temiamo che l’ampliamento della SAR tunisina possa portare un numero maggiore di intercettazioni di naufraghi che fuggono [dalle coste nordafricane] e che poi vengono riportati in Tunisia – che non è un porto sicuro (POS) – dalla guardia costiera tunisina», spiega Soazic Dupuy, direttrice delle operazioni di SOS MEDITERRANEE.
Le associazioni firmatarie del comunicato denunciano «episodi di violenza e violazioni dei diritti umani durante le intercettazioni in mare da parte delle forze tunisine», e lo stesso accade per i migranti in terra tunisina. La situazione nei confronti delle persone migranti, specialmente per coloro che provengono dall’Africa subsahariana, è drasticamente peggiorata dal febbraio 2023, quando il presidente Saiëd, al potere dal 2019, ha parlato di «orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana» pronte ad entrare nel Paese nel quadro di un disegno per «cambiare la composizione demografica». Da quel momento, le testimonianze delle violenze della polizia tunisina sono aumentate drasticamente, come riportato da Human Rights Watch.
«Un poliziotto ha fermato il mio taxi, mi ha fatto scendere e mi ha spinto. Mi ha detto: “Sei nero, non hai il diritto di stare qui…”. Non mi ha chiesto i documenti, mi ha preso di mira solo per il colore della mia pelle», ha raccontato Moussa Baldé, 30 anni, originario del Senegal, all’ONG. «Alla stazione di polizia, due agenti mi hanno preso a pugni e picchiato. Mi hanno dato da mangiare solo una volta durante i due giorni [di detenzione] e ho dormito per terra. La polizia non ha fatto domande sulla situazione dei miei documenti. Hanno detto “Ti liberiamo, ma devi lasciare il Paese”».
Kaïs Saïed è stato recentemente rieletto alla presidenza del Paese: lo scorso 6 ottobre ha ottenuto il 90.7% dei voti, con un’affluenza ferma al 27.2%. La sua rielezione era un risultato atteso: gli altri due candidati alla presidenza erano Zouhair Maghzaoui, da molti definito “candidato fantoccio” perché sostanziale alleato di Saïed stesso, e Ayachi Zammel, un imprenditore liberale attualmente in carcere perché condannato per “falsificazione di documenti”. Governa con il pieno appoggio dell’Unione Europea, con cui a luglio 2023 ha sottoscritto un Memorandum d’Intesa per la creazione di un nuovo “partenariato strategico”: l’accordo ha stanziato un pacchetto di finanziamenti pari a un miliardo di euro e si basa su cinque pilastri di intervento e cooperazione, di cui il più importante riguarda la lotta ai trafficanti e ai flussi migratori “irregolari” in partenza dalle coste tunisine. Si è previsto lo stanziamento immediato di 150 milioni di euro, una misura a cui si potranno poi aggiungere ulteriori 900 milioni di assistenza macro-finanziaria. Un ruolo di interlocutore privilegiato è quello della presidente Meloni, che rinnova periodicamente il sostegno alla Tunisia, attraverso stanziamenti di pacchetti aggiuntivi per fermare le partenze dalle coste del Paese.
Lo scorso 6 maggio 2024, in un discorso al Consiglio di Sicurezza Nazionale tunisino, il presidente Saied è tornato nuovamente sul tema migranti: «Ancora una volta, lo dirò forte e chiaro, e lo dirò a tutto il mondo, la Tunisia non sarà una terra accogliente per loro, né la loro sede». In quegli stessi giorni, sono stati perquisiti i locali di diverse associazioni del territorio, tra cui il Consiglio tunisino per i rifugiati, Terre d’asile Tunisie e il Consiglio norvegese per i rifugiati. Per l’attivista Saadia Mosbah, presidente dell’associazione Mnemty (il mio sogno), è stato emesso un ordine di cattura.
In Tunisia è razzismo di Stato: gli abusi delle forze di polizia tunisine per mare e per terra
Dei 24 migranti intervistati da Human Rights Watch, 22 hanno dichiarato di aver subito violenze da parte della polizia tunisina. Attraverso intercettazioni in mare o arresti arbitrari sul territorio tunisino, le autorità del Paese hanno ripetutamente abbandonato rifugiati, richiedenti asilo, migranti regolari nel deserto al confine con Libia e Algeria.
Associazioni, organizzazioni internazionali, enti del terzo settore che operano sul territorio, testimoniano quotidianamente queste violenze, attraverso contatti diretti con i migranti abusati. Ne è un esempio quanto accaduto a luglio 2024 a 52 migranti subsahariani: a seguito della segnalazione di Frontex sulla posizione della barca con cui stavano tentando di attraversare il Mediterraneo, il gruppo è stato intercettato dalla Guardia Costiera tunisina e portato a Sfax. In seguito, i migranti sono stati caricati su grandi autobus e gettati nel deserto algerino senza cibo, acqua o riparo. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite visionato da Reuters, centinaia di migranti in Tunisia sono stati deportati nella vicina Libia, dove sono stati sottoposti a gravi estorsioni e abusi. I documenti ONU parlano di uno schema ben preciso: i funzionari di frontiera tunisini si coordinano con le controparti libiche per trasferire i migranti nei centri di detenzione di al-Assa o Nalout, appena oltre il confine in Libia. Dopo trattenimenti che variano da pochi giorni a diverse settimane, avviene il trasferimento nel centro di detenzione di Bir al-Ghanam, vicino Tripoli. Il prezzo della libertà è una cifra compresa tra 2.500 e 4.000 dollari, a seconda della nazionalità dei migranti. All’interno dei centri di detenzione libici, i trattenuti vengono quotidianamente sottoposti a tortura e privazioni costanti: secondo quanto riferito da testimoni all’ONU, nella struttura di al-Assa le guardie di frontiera hanno bruciato vivo un uomo sudanese e hanno sparato a un altro detenuto per ragioni sconosciute.
Anche chi riesce ad arrivare in Europa porta con sé i segni delle violenze: l’équipe della Ocean Viking, nave di SOS Méditerranée, ha osservato tipi di lesioni specifiche tra chi parte dalla Tunisia. Diversi di loro, infatti, presentano «lesioni agli arti inferiori causate da attacchi con pezzi di legno appuntiti», e raccontano un clima di “caccia all’uomo” costante e pervasivo. Secondo altre testimonianze, riportate da Amnesty International, Human Rights Watch, l’Organizzazione mondiale contro la tortura e Alarm Phone, le autorità tunisine in mare hanno costantemente messo a rischio le vite umane durante le intercettazioni delle imbarcazioni: chi è sopravvissuto racconta di manovre pericolose da parte della Guardia costiera tunisina, che hanno causato il capovolgimento dell’imbarcazione, rimozione del motore dai barchini, lancio di gas lacrimogeni a distanza ravvicinata, collisioni con le imbarcazioni, oltre all’«incapacità di garantire sistematicamente valutazioni personalizzate dei bisogni di protezione al momento dello sbarco», racconta l’appello delle ONG.
Le responsabilità dell’Unione Europea: 150 milioni di euro versati alla Tunisia lo scorso anno
Nel corso del 2023, l’Unione Europea ha siglato un Memorandum d’Intesa con il governo tunisino, in cui si prevedeva che Bruxelles avrebbe dovuto versare subito e senza condizionalità 150 milioni di euro in cambio di riforme economiche e un aumento dei controlli alle frontiere per fermare i flussi migratori in partenza dal Paese. Questa somma, però, secondo quanto dichiarato da alcuni deputati europei, è stata consegnata direttamente al presidente tunisino Saiëd, senza che sia avvenuto un qualche tipo di controllo sull’utilizzo di questi fondi. In più, la Commissione europea tace, si rifiuta di rispondere alle domande degli eurodeputati sulle modalità di erogazione dei fondi e sul controllo che sta avvenendo sull’utilizzo del denaro europeo in Tunisia.
Un’inchiesta del Guardian, pubblicata il mese scorso, ha rivelato come le forze di sicurezza tunisine finanziate dall’Unione europea siano responsabili di gravi violazioni nei confronti delle persone migranti nel Paese, tra cui violenza sessuale e deportazione di donne incinte o di minori. Come Marie, ferma in fila al posto di blocco stradale, aggredita da quattro ufficiali della guardia nazionale tunisina. Salvata da un gruppo di rifugiati sudanesi di passaggio. «Siamo stuprate in gran numero; loro [la guardia nazionale] ci prendono tutto», ha dichiarato raccontando quanto accaduto. Il suo racconto, insieme a centinaia di altre testimonianze, suggerisce che l’UE stia finanziando forze di polizia che compiono abusi e violenze indiscriminate. La lotta alle persone migranti passa anche dalla quotidianità della vita in città: Sfax è off-limits, i proprietari dei bar vengono arrestati se un migrante viene sorpreso a ordinare il caffè, solo le donne escono a fare la spesa, sperando di evitare le deportazioni da parte delle squadre che pattugliano le città. «Il mese scorso una delle mie amiche, incinta di sette mesi, ha visitato il centro di Sfax per fare la spesa», ha raccontato Mohamed al Guardian. «A un posto di blocco, la polizia la fece salire su un furgone e la portò al confine con l’Algeria. Per giorni ha implorato acqua per lei e per il suo bambino non ancora nato. Il suo corpo è stato trovato a metà agosto vicino a Kasserine, a faccia in giù nella sabbia».
Dopo la recente riconferma di Saiëd alla presidenza del Paese, la situazione per le persone migranti in Tunisia, così come nelle vicine Libia e Algeria, non migliorerà. Un sistema di repressione sistematica finanziato in modo massiccio e strutturato dall’Unione Europea e dai suoi paesi membri, che stringono accordi bilaterali ad hoc per fermare i flussi.
“Nel 2011 sognavamo la libertà, ora si tratta di sopravvivere. Siamo intrappolati all’inferno”.
Albertina Sanchioni